23 giugno 2015

La maturità non finisce mai – in margine alla lettura de “La porta stretta” di Curi


Il libro di Umberto Curi rinviene gli elementi distillati dalla cultura occidentale per una paideia del diventare «maggiorenni», senza impelagarsi in arzigogoli pedagogici. Il percorso si snoda tra filosofia e letteratura, senza risparmiarsi nessuna delle vette raggiunte sul tema: da Platone ai giorni nostri, passando per Kant, Dostoevskij, Melville, Hegel e la Sacra Scrittura. Il primo merito di questo libro è scrollarsi l’interpretazione delle età della vita come processo lineare e progressivo: la maturità conosce fughe in avanti, acquisizioni, ma allo stesso tempo passi indietro, regressioni. Il concreto vivente abita gli stadi della vita, centrati su specifiche forme da sviluppare, contemporaneamente e a cerchi concentrici: l’uomo non è essere lineare, ma polare. Oscilla in stato di continua tensione tra il polo dell’autonomia raggiunta, attraverso qualsiasi forma di parricidio, simbolico o reale, e il polo dell’obbedienza, cioè quella pienezza raggiunta obbedendo (ob-audire: ascoltare e far proprio) al discorso paterno.

Nella prima regione troviamo personaggi e filosofi che identificano la maturità con la presa di posizione del figlio contro il padre e i suoi insegnamenti: Edipo, i Karamazov, Kant e il suo concetto di «rischiaramento» depurato da tante interpretazioni fuorvianti, Freud… Nella seconda si attesta soprattutto il paradigma giudaico-cristiano, con i suoi santi al seguito della figura di Cristo, che svuota se stesso nel dono di sé e, obbedendo al Padre, raggiunge la pienezza della sua missione e invita i suoi a fare altrettanto, senza che questo significhi inerzia, remissività, deroga: «Mi svuoto non per restare minorenne a vita, ma perché è quella la strada attraverso la quale potrò conseguire una maturità autentica, comunque sottratta alla precarietà o all’inefficacia di una autoaffermazione che implichi l’uccisione del padre… Pur innegabile e ineliminabile, l’aspetto della “sottrazione” o della “rinuncia” non è affatto quello che più adeguatamente può esprimerne la peculiarità. Nettamente predominante è semmai un carattere opposto, nel senso del massimo potenziamento, dell’acquisizione piuttosto che della perdita, della vittoria anziché della sconfitta, dove il «vuoto» è in funzione di un “pieno” più autentico e “compiuto”».

In una zona intermedia, o ulteriore, di sospensione tra l’agone contro il padre e quello con se stessi in favore del padre, Curi colloca Bartleby, lo scrivano di Melville che, chiamato a superare la sua minorità, si sottrae: «preferirebbe» rimanere il semplice «copista» che è sempre stato, anche se proprio questo rifiuto o astensione lo porterà alla rovina. Bartleby sa che, propendendo per l’uno o l’altro polo, accetterebbe la vita come lotta che il singolo è costretto ad affrontare, un agon a cui non ci si può sottrarre. Egli risponde rifiutando il ruolo di prot-agonista, di primo lottatore, con una terza via, marginale: «A chi ci incalza per farci diventare maggiorenni, e dunque vorrebbe spingerci all’obbedienza o costringerci al parricidio, ha dimostrato che si può rispondere “preferirei di no”».

Qualunque sia la via scelta, il titolo del libro, sfruttando la metafora evangelica, indica proprio il passaggio stretto che ognuno, in numerosi e ripetuti momenti della vita, è chiamato ad attraversare: la porta della maturità è stretta, perché, comunque si scelga, i brandelli della carne vi rimangono impigliati, sia nel braccio di ferro con il padre, sia nell’accettazione dell’«eccomi» alla volontà del padre, sia nel «preferirei di no». Il dato che emerge è che nessuno di noi si è dato a se stesso, ma è posto nel mondo per una volontà non sua, alla quale può ribellarsi, con il grido di molti personaggi della letteratura: «meglio non esser mai nati» (tema già sviscerato dall’autore in un altro libro). Ma per chi accetta la condizione di «dipendenza» alla e nella vita, la maturità è trauma imposto: siamo costretti a maturare, ad affrontare la porta stretta, come il personaggio del racconto di Kafka che invecchia davanti a quella porta, senza mai riuscire a varcarla. Maturare è comunque un faticoso e necessario «uscire» dalle proprie ristrettezze e dipendenze idolatriche, rimanendo in bilico e quindi in tensione tra la visione parziale della minorità e l’accecamento prodotto dalla nuova condizione, perché è proprio della condizione umana «in qualunque epoca, in ogni fase della nostra vita, avere accesso non al chiarore splendente di una luce senza ombre, ma soltanto al chiaroscuro di una visione comunque limitata e imperfetta».

Curi, con il gusto per l’archeologia – come ricerca dell’origine e del principio ordinante – della parola, e con ragionamento serrato, che progredisce sia linearmente, sia a spirale attorno alcuni punti più complessi, scendendo ad ogni passaggio più in profondità, ci conduce in un viaggio culturale appassionante e impegnativo (bellissime la pagine dedicate al Grande Inquisitore dostoevskijano), per farci scoprire, a scanso di semplificazioni e formule approssimative, che «la maggiore età non è l’incrollabile punto di arrivo del viaggio, non coincide con uno stato acquisito una volta per tutte. Ma che la nostra vita è, nel suo insieme, caratterizzata da un polemos inesauribile, dal quale non si esce mai definitivamente vincitori una volta per tutte». La Stampa, Tuttolibri 22 giugno 2015 – link all’articolo 

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Non conosco Umberto Curi di persona, ma ho avuto la conferma di uno stile umano raro anche fuori dalla pagina, quando ho ricevuto queste righe di ringraziamento per la recensione. Quando l’umanesimo rende le persone ancora più umane.

“Caro D’Avenia, volevo ringraziarla per la bella e intensa recensione al mio “La porta stretta” – davvero quanto di meglio sia stato detto o scritto finora. Si coglie, nell’attenta e insieme originale ricostruzione da lei descritta, una competenza specifica sui testi e sugli autori convocati nel testo. E si coglie anche la “sensibilità” dello scrittore, che sa valorizzare con grande incisività il tentativo di contaminare i “generi”, andando al di là della distinzione fra saggistica e narrativa. Grazie ancora e molti cordiali auguri per il suo lavoro”

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