20 gennaio 2016

Zibaldino: Poesia, Di Caprio, Consumismo e don Abbondio

 …pensieri sparsi di un prof scrittore…

La Scuola uccide la poesia?

Diciamolo ai ragazzi che le poesie crescono nelle raccolte e non nelle antologie. Facciamoglieli vedere i nostri libri di poesie, letti, sottolineati, vissuti. Altrimenti poi non possiamo stupirci che pochissimi in questo Paese leggano libri di poesia (e li comprino anche). Oggi un ragazzo di quindici anni quando ha visto la mia vecchia edizione di Lavorare stanca di Pavese, ha esclamato leggendo il titolo: è proprio vero. Sì, è proprio vero, la poesia, quella che crea le condizioni perché la bellezza si dia, riesce a dire solo la verità. Per questo ne leggiamo poca, perché, troppa realtà tutta in una volta, il genere umano non la sopporta. Torniamo a impararle e farle imparare a memoria, invece di ridurle a problemi psicologici dell’autore, perché imparare a memoria è l’atto di interpretazione più giusto per una bella poesia, come per un brano musicale lo è la sua esecuzione. Il resto sono chiacchiere. Oggi più che mai, così tesi a restringere la vita, la poesia resta il baluardo spirituale capace di dare il più ampio consenso alla vita senza soccomberle, la mappa per abitare ogni stanza della casa dell’essere, anche quelle più oscure, anche quelle più luminose. Non riusciamo più a pregare, per lo stesso motivo per cui non leggiamo poesie: ci siamo rassegnati al fatto che la realtà sia solo quella che si vede.

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Revenant e la faccia di Di Caprio.

Il limite di Revenant come film (la fotografia presa a sé è superba) è che si vede troppo: solo l’arte dell’allusione rende l’illusione perfetta. L’iper-visività incatena alla superficie e gradualmente si perde la profondità, la carne si trasforma in spettacolo, le emozioni in provocazioni, la sapienza in informazione. La sospensione dell’incredulità s’arresta, la catarsi resta quindi interdetta per troppa vicinanza, nonostante la faccia di Leo (la sua “facies”, non il suo “vultus”: si osservi l’ultimo frame) meriti l’Oscar di miglior “agonista” (la faccia non lui), perché mai come in queste due ore e mezza l’agonia è concentrata su quella superficie. Inarritu inventa una retorica, ma si dimentica per quale motivo l’ha inventata, come rischiano i virtuosi. Si esce esteticamente impressionati, ma non per questo più capaci di stare al mondo. Da vedere, appunto. (Il mio amore ad attore e regista resta comunque incondizionato). 

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Consumi culturali: un nonsenso linguistico

In questi giorni ho letto alcuni articoli in cui ci si lamentava del fatto che in Italia sono in calo, o sono inferiori ad altri paesi europei, i “consumi culturali”. Non so chi abbia creato questo nonsenso linguistico. La cultura ha a che fare con il campo, “agri-cultura” è la cura (il verbo latino colere vuol dire prendersi cura) del campo e Cicerone definì la filosofia “animi-cultura”, l’amore per la sapienza è la coltivazione dello spirito. La cultura insomma è il contrario del consumo, il consumo distrugge ciò che ne è oggetto (consumiamo un pasto, non un quadro), mentre la cultura fa dell’oggetto il soggetto, che è la realtà da cui ci lasciamo educare senza distruggerla, anzi lasciandoci da essa trasformare (dare una nuova forma). Pensiamo veramente di poter quantificare la cultura di un paese dai suoi “consumi” culturali? I Greci antichi non avevano musei a pagamento, i loro consumi culturali erano a zero, eppure di cultura mi sembra ne avessero… La cultura dipende dalla coltivazione nella propria vita del bene, del vero, del bello. E non basta consumare “oggetti culturali” perché questo accada, anzi ci vuole il contrario del consumo che è la contemplazione, cioè lasciare che l’oggetto sia, e diventi quindi soggetto, a contatto con il quale io vengo educato e trasformato. Le foto che scattiamo ai quadri o alle opere di una mostra dimostrano la nostra difficoltà a contemplare, quando invece dovremmo rimanere almeno 10 minuti in silenzio di fronte a quel quadro, perché il suo mistero, a poco a poso, si sveli come tutto ciò ha profondità, come si fa con il seme del campo e il rispetto delle stagioni. Anche a scuola spesso consumiamo invece di contemplare: le antologie sono il supermercato della letteratura, i programmi la prestazione da raggiungere. Ma c’è vera cultura solo quando dopo aver frequentato un quadro, un’opera, un libro, qualcosa in me si è ampliato, approfondito, risvegliato, trasformato. La felicità di un Paese non è nel suo Pil e la cultura non è nei suoi “consumi culturali” che, casomai, potranno segnalare semplicemente un sintomo o costituire un’occasione, poiché non è la moltiplicazione delle occasioni a fare di per sé cultura, né l’addizione degli oggetti consumati. La cultura rende le persone più aperte e disponibili al mondo, quindi ad accogliere, non a consumare. Dalla stessa radice latina viene la parola “cultum”, il culto, la cura del sacro. La vera cultura è scoperta del sacro nella nostra vita, la frequentazione di ciò che per definizione non può e non deve essere consumato, perché indisponibile ai nostri appetiti, ma disponibile solo ad essere accolto perché ci trasformi. Altro che consumi.

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A.Manzoni, Promessi sposi, cap. 32

(Don Abbondio) Dovette dunque parlar con se stesso; ed ecco una parte di ciò che il pover’uomo si disse in quel tragitto: ché, a scriver tutto, ci sarebbe da farne un libro.
“E’ un gran dire che tanto i santi come i birboni gli abbiano a aver l’argento vivo addosso, e non si contentino d’esser sempre in moto loro, ma voglian tirare in ballo, se potessero, tutto il genere umano”.

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