11 dicembre 2016

Con Omero, Vermeer e Bob Dylan è dolce naufragare nella bellezza

Il gigantesco viaggio nella creatività umana di Giuseppe Montesano e del suo “Lettori selvaggi”, dai misteriosi artisti della preistoria a Beethoven e Jacovitti.

Questa non è un’antologia ma la festa di tutti i compleanni che l’umanità ha celebrato nel fare bellezza. Non è neanche un canone, atto meritorio in epoca di indifferenza (la mancata percezione delle differenze tra bello e brutto, vero e falso, buono e cattivo, e delle loro gradazioni), ma un vero e proprio «cannone» letterario capace di sparare fuoco da tutte le epoche e perforare la corazza delle nostre ideologie, perché l’unico proiettile che attraversa la storia e le sue menzogne provvisorie è la bellezza, fino a ferire proprio noi, con il suo «colpo di grazia» salvifico.

Il lector in fabula richiesto da Montesano è un cavaliere errante nell’avventurosa selva in cui gli antichi protagonisti del romanzo cavalleresco cercavano il senso di sé e del mondo. Il titolo, Lettori selvaggi, non è la semplice e gioiosa possibilità di smarrirsi nel bosco artistico, passeggiandovi, arrampicandosi, fermandosi, ma la necessità di trovare la vera vita «fuori», o «altrove» dice Montesano. Il fuori è il luogo del pericolo (le porte si chiamavano «fores» in latino), perché costituivano la soglia oltre la quale alberga il mistero: la foresta (ciò che sta fuori), con i suoi forestieri (chi viene dall’altrove), portatori di novità, messaggi inattesi per il nostro troppo quieto e disperato vivere. Come il Virgilio dantesco che si fa incontro al poeta proprio nella «selva», per aiutare il suo «selvaggio» discepolo a ritrovarsi. La selva di Montesano segnala tutte le piste della «poesia» (creazione) mondiale, anche le meno battute dalle nostre ancor provinciali abitudini scolastiche: c’è la letteratura cinese accanto alla greca, l’araba accanto alla latina, la pittura accanto alla filosofia, il cinema accanto alla musica. La lettura deve essere selvaggia, non selvatica: perdersi e sporcarsi nell’avventura, perché il finale si compia nella vita del lettore, dalla carne alla pagina, dalla pagina alla carne.

Nella selva potete incontrare Eschilo e Bob Dylan (prima del Nobel), gli artisti delle caverne preistoriche e Hopper, Vermeer e Jacovitti, Vivaldi e il jazz, Lang e Hitchcock, Omero e Gadda, i poeti della Bibbia e Foster Wallace, Euclide e i poeti cinesi dell’epoca Tang, i Veda e David Lynch. In questa foresta popolata di maestri è dolce smarrirsi, soddisfare la curiositas del bambino e la studiositas dello scienziato-filosofo. C’è la pretesa dell’universo in queste 2000 pagine selvagge, il distillato del profumo e del sudore dell’uomo che lotta per strappare un senso alla realtà.

La domanda all’autore è: come ha fatto? E suo corollario: ci è riuscito? Alla prima rispondo: ha lavorato per tutta la vita (da lettore e da insegnante) a questo libro, di cui gli ultimi dieci anni – mi dicono – per scriverlo. Alla seconda rispondo con il metodo che ho usato: visite a campione nelle zone a me note e in quelle a me sconosciute. Nelle prime (le note) ho trovato definizioni di fulminea precisione (dopo lo sgomento per le due pagine dedicate a Iliade e Odissea, di contro alle otto del poeta persiano Nezami): «Omero già nel VIII secolo prima di Cristo raccontò che il viaggio non è mai un viaggio vero che porta altrove, ma è sempre un ritorno»; di Pirandello si dice «fu solo con lui, un uomo venuto dal profondo della provincia siciliana, che nella letteratura italiana entrò, scatenato e scardinato, il Moderno: ed è il primo dei paradossi»; di Leopardi: «e dove si troverà mai quell’amore che tutto trasporterebbe nell’attimo che salva? A noi, perduti nella chiacchiera del nostro piccolo ma tanto caro Io, anche solo nominare quell’amore appare ridicolo e vano». Nelle seconde (le zone sconosciute) ho rinnovato la mia sete di conoscere e studiare: il sentimento della vita infantile ed essenziale di Lu Yu (1125-1210), poeta cinese non ancora tradotto in italiano: «La morte e questa vita fluttuante le ho già dimenticate / scelgo un libro ma sono troppo pigro per leggerlo / disteso ascolto i miei nipoti scandirlo ad alta voce»; o il culto dell’immaginazione borgesiano di Hafez, poeta arabo del XIV secolo: «La nostra esistenza è un enigma, o poeta, / a risolverla vale soltanto un incanto, o una fiaba».

Non ho letto il libro per intero, ma l’ho attraversato come cavaliere errante che, avventura dopo avventura nell’altrove della foresta della bellezza, re-impara «selvaggia-mente» a leggere il mondo e se stesso. Ogni lettore si scoprirà protagonista nella selva dei maestri e il tracciato scelto diventerà la propria trama, sulle orme di chi si e ci salva dalla continua caduta nel tempo degli orologi. Nella selva si cela il mistero e si celebra il rito del perdersi e trovarsi, trasformando l’altrove in qui e adesso, il fuori nella nostra vita interiore. E se è vero quanto Montesano dice dell’opera di Vermeer: «Non c’è altro che la Bellezza… la bellezza è rivoluzionaria, chiede il capovolgimento delle parvenze del mondo e della società», forse la selva può anche salvarci.

La Stampa, Tuttolibri, 11 dicembre 2016 – Link all’articolo e al primo capitolo

 

2 risposte a “Con Omero, Vermeer e Bob Dylan è dolce naufragare nella bellezza”

  1. Irene ha detto:

    Ho appena finito “cose che nessuno sa” … mi è piaciuto

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