12 giugno 2018

Letti da rifare 20. Mi basta l’aria

Risultati immagini per cervo a milanoUn cervo si aggira per le strade di Milano, smarrito e regale, tra lo stupore dei passanti. In una piazza di Brescia c’è una carrozzina abbandonata, dentro c’è un bambino che un passante decide di salvare. Un quadro dimenticato negli archivi di un museo di Bergamo si rivela, a occhi pazienti, un capolavoro di Mantegna il quale vi aveva nascosto abilmente la firma. Non si tratta dell’inizio di un giallo, ma di tre eventi accaduti pochi giorni fa, nella stessa settimana. Sono diventate tre «notizie», capaci di bucare la soglia di distrazione collettiva, perché i tre protagonisti, fuori contesto, hanno mostrato tutta la loro presenza, come «miracoli». La parola miracolo viene dalla radice contenuta anche in «ammirare», e non indica altro che ciò che accade sotto i nostri occhi costringendoci a guardare e a ritornare presenti a noi stessi, cioè vivi. «In verità siamo tutti in attesa», scriveva infatti Pavese nel breve racconto Piscina feriale: «Siamo tutti inquieti, chi seduto e chi disteso, qualcuno contorto, e dentro di noi c’è un vuoto, un’attesa che ci fa trasalire la pelle nuda». E che cosa aspettiamo? Ognuno di noi è in attesa del suo «miracolo», e forse anche per questo guardiamo così spesso i nostri cellulari. Ma non ci procureremo miracoli con stupefacenti occhiali che «aumentano la realtà» sovrapponendole maschere, ma allenando gli occhi a scorgere i prodigi incastrati nel quotidiano.

I nostri occhi, sempre voraci e spalancati, proprio chiudendosi possono aprirsi davvero, per questo indovini e poeti del mito sono spesso ciechi. Non riceviamo miracoli perché non instauriamo la giusta intimità con cose e persone, siamo passanti la cui soglia di attenzione dura 8 secondi, divoriamo senza gustare, preferiamo la superficie al tuffo. Assomigliamo a Sisifo, che eternamente deve spingere il suo masso su un’altura per poi vederlo inesorabilmente cadere una volta in cima. Vorremmo essere liberi di non spingere invano, fermarci e riposare, perché anche fermarsi è vita: oggi chi non si ferma a guardare non guarda, come chi non si ferma a pensare non pensa. Azione e contemplazione sono sistole e diastole della vita: più si esagera da una parte più l’altra reclama i suoi privilegi, perché il cuore senza azione resta acerbo, senza contemplazione marcisce.

Fermarsi non vuol dire essere immobile, ma stabile, il contrario di «in-fermo», colui che è instabile, perché non si ferma mai, e perciò s’ammala. Fermarsi è creare ogni giorno spazi di intimità che permettono al quotidiano di «miracolarci», senza ricorrere a effetti speciali: fermarsi è la cura per i dis-graziati, cioè chi non trova più grazia nel mondo. Infatti contemplare in origine indicava l’osservare la porzione di cielo visibile dal recinto sacro del tempio. Il volo degli uccelli, intercettato in quella cornice, diventava segno del destino: era solo un volo animale, ma diventava anche un volo dell’anima attraverso una strettoia di attenzione e attesa. Si contempla solo a partire da un limite, come Leopardi dalla sua siepe. Il cervo sperduto, il bambino abbandonato, il quadro nascosto bucano il muro di distrazione che ce li rendeva invisibili: entrano sfolgorando nelle nostre pupille come frammenti di una pienezza smarrita e desiderata. In un attimo amiamo cervi, bambini, quadri: li abbiamo ritrovati, proprio noi, passanti disattenti, che non li vedevamo più. Contemplare è il guardare che conduce ad amare, un tirocinio dell’attenzione che rende possibile una relazione erotica col mondo: si guarda tutto come l’amante la sua amata, ogni dettaglio contiene e rivela tutta la persona. Non è l’amore a esser cieco, ma l’odio; l’amore, in quanto attenzione a ogni particolare dell’altro, ci vede benissimo.

Permettete un esempio personale per spiegarmi meglio. Ora che è finita la scuola, mi mancherà il miracolo quotidiano dell’appello all’inizio della giornata. Sulla scorta del libro di Cormac McCarthy, La Strada, ogni mattina mi immaginavo che una catastrofe globale avesse risparmiato solo la mia classe. Avevo davanti a me tutto il genere umano: che mi piacesse o no loro erano il mio mondo e io il loro. Dovevo pronunciare ogni nome e guardare ogni volto come necessario a ricostruire tutto daccapo. Fermando lo sguardo sui dettagli di ciascuno i miei occhi si purificavano, e ogni vita mi appariva insostituibile. Non ero al servizio di Programmi ma di Prodigi (prodigio vuol dire soltanto «posto dinnanzi») e Fenomeni (che significa semplicemente «ciò che appare»). Contemplare è aver fede nelle cose della terra, avere le visioni che la realtà merita, guardare un ragazzo come ciascuno di noi vuole e può essere guardato, come un dono per il mondo.

L’arte è esercizio per allenare gli occhi al miracolo, ma chi di noi oggi si ferma a guardare un quadro almeno un minuto? Considerate come i pittori olandesi del ’600 dipingevano scene di vita casalinga. Stanze, suppellettili, gesti di uomini, donne, bambini e animali, diventano «apparizioni», grazie alla cordialità dello sguardo e alla pazienza dell’arte. Per Vermeer, Ter Borch, de Hooch, la realtà non è da aumentare, è già aumentata perché è l’apparire di una casa nelle cose e azioni quotidiane, e di un tesoro nelle persone che incontriamo. Quei pittori non introducevano la bellezza nel quotidiano, ma la liberavano dal suo interno. Invece noi spesso cerchiamo invano di innamoraci della realtà sovrapponendole modifiche, informazioni ed emozioni utili al consumo, senza così mai riuscire a riposarvi e riposare. Un giorno Van Gogh, in cerca di quel riposo, ebbe un’idea folgorante: dipingere la sua camera. Ne scriveva con entusiasmo al fratello Theo: «Si tratta semplicemente della mia camera da letto, il colore deve fare tutto e, accentuando lo stile degli oggetti, dovrà suggerire il riposo. Il legno del letto e delle sedie ha il tono giallo del burro fresco, le lenzuola e i guanciali sono di un verde limone molto chiaro. La coperta è scarlatta. La finestra verde. La toeletta arancione, la bacinella azzurra, la porta lilla. Le ampie linee dei mobili devono esprimere un riposo inviolabile. La cornice, non essendovi bianco nel quadro, sarà bianca». I grandi pittori incorniciano, senza menzogna e ingenuità, un pezzo di quotidiano come un prodigio, e ci lavano gli occhi. Qual è però nella vita la «cornice bianca», di cui parla Van Gogh, che rende una camera un angolo di paradiso?

La cornice bianca è accettare il limite di essere uomini. Per i greci l’uomo era definito in relazione agli dei immortali. Omero infatti chiama gli uomini «quelli alle prese con la morte», i «mortali», Eschilo li chiama «gli effimeri», «quelli d’un sol giorno». Se inseriamo ogni azione nella cornice d’un giorno, se non rimuoviamo la morte, contempleremo e smetteremo di aspettare, perché avremo già tutto. Se morire è fermarsi del tutto, vivere è allora fermarsi un poco, essere presenti. Se aveste un sol giorno cosa fareste? Se la risposta coincide con ciò che già fate, siete «miracolati», e ciò che abbandonereste è solo un masso di Sisifo. Io proverei a far meglio ciò che faccio abitualmente: mi sforzerei di offrire la lezione più bella; ascolterei i ragazzi con attenzione; leggerei loro delle pagine-testamento: Omero, Dante, Leopardi. Spegnerei il cellulare e direi dei grazie, scusa, come stai, a tu per tu. Sorriderei molto. Ascoltando il secondo movimento del Concerto n. 4 per piano di Beethoven scriverei con la malinconia di chi salpa e lascia la sua terra, ma con la speranza di giungere al porto su cui tutto ho scommesso: Dio. Imbandirei una cena, come di compleanno, con familiari e amici stretti. Mi fermerei con loro a ricordare e ridere con del buon vino fino a tardi. Poi da solo guarderei le stelle, le poche visibili in città, e me le farei bastare. Direi buonanotte con un bacio calmo, pregherei in silenzio, e mi abbandonerei al sonno, amato sonno. Il «riposo inviolabile», di cui parla il pittore, non è non agire, ma riposare nell’agire, soffermandosi, cioè fermandosi-sotto: al servizio di cose e persone.

Alla fine di un racconto breve, l’ultimo prima di morire di tumore a 43 anni, Marina Sangiorgi, con penna tanto leggera quanto consistente, alle prese con la morte scovava la vita dappertutto: «Sto male e mi accorgo che l’aria è bella e gli alberi alla sera sono bellissimi, si imbrunano e le foglie si muovono all’aria leggera, e tutto è dolce, una meraviglia, una bellezza spropositata e immeritata. Mi piace tutto: i bambini nei passeggini, la musica, la gente, — ah la gente! ma li guardo abbastanza i visi, i sorrisi, le mani, le attaccature dei capelli? Dio, mi piace tutto! I sandali, le seggiole, le lampadine, il pavimento che scorre sotto i piedi, ogni momento, ogni andamento, oleandri e magliette e risate, le voci, il chiasso della vita, voglio restare per guardare, guardare ancora, guardare e basta. Ogni giorno è clamoroso, è un clamore di desiderio e amore, ogni giorno è tutto, e non voglio niente, non chiedo più niente, mi basta l’aria». Mi basta l’aria, così si intitola il racconto, il titolo giusto per il letto da rifare di oggi: per chi vuole farsi bastare l’aria, l’unica strada è fermarsi un poco. Respirare non fa dell’aria il miracolo di questo istante?

Corriere della Sera, 11 giugno 2018 – Link all’articolo e ai precedenti

8 risposte a “Letti da rifare 20. Mi basta l’aria”

  1. Marisa ha detto:

    Molto bello!!!! Interessante, un testo capace di mettere in luce le risorse dell’animo umano che da soli non riusciamo ad individuare.
    Grazie

  2. nadia ha detto:

    Che bello ! sono estasiata, arricchita dalle riflessioni anche intime e profonde a cui veramente mi sono disabituata seguendo il ritmo forsennato delle nostre giornate. Grazie perché mi aiuta a riflettere, a recuperare qualche momento solo mio che poi riesco a condividere con chi mi è vicino e mi/ci arricchisce.

  3. Alessandra ha detto:

    Ieri ho fatto moltissimi chilometri per andare a dare l’ultimo saluto ad un grande amico che un tumore ha portato domenica a raggiungere la Pace Eterna.
    Un grande professore che insegnava con passione e intuizione didattica insaziabili i prodigi del cosmo! E rendeva prodigiosi i suoi studenti dedicandosi ad ognuno con lo sguardo curioso e rispettoso della cura che guarda lontano. Grazie caro Bepi!

  4. Adriana ha detto:

    Molto bello. Ha catturato la mia attenzione facendomi riflettere, fermandomi cosa che bisognerebbe fare più spesso.

  5. Sara ha detto:

    Quando riesco a ritagliarmi un piccolo spazio ti leggo.
    Ultimamente sta diventando difficile. Arrivando alla fine di questo tuo scritto, però, mi sono obbligata a fermarmi. A bucare la mia soglia di distrazione.
    È vero, per riconoscere l’arte, e la bellezza in generale, gli occhi devono essere allenati. Lo dico sempre anche io. Qualche anno fa è uscita la mia prima raccolta di racconti, era dedicata – A chi ancora si ammala di bellezza -. Mi era sembrata un’immagine bella, che non so perchè aveva dentro qualche canzone di De Andrè.
    Come te insegno. Alle medie. Condivido molte delle tue riflessioni sulla scuola oggi. E, come avrai capito, come te scrivo. A breve uscirà il mio primo romanzo per Feltrinelli e non vedo l’ora.
    Rapporti umani e parole. Amore reso in forma diversa. Ma sempre amore.
    Ok, volevo solo farti un saluto. Ammesso che leggerai mai questo messaggio.

  6. Rosa Rita ha detto:

    Conoscevo Marina, mi fa Compagnia e forse per questo a tratti mi manca tanto!
    Era uno Spettacolo disarmante di tenera impertinenza, perchè sinceramente desiderosa di Tutto!
    Che Grazia poter godere della Sua Amicizia!!

    Un Caro saluto e Grazie per averla guardata ed averle dato spazio

    • Prof 2.0 ha detto:

      Il dolore è il modo in cui chi abbiamo amato è presente. Certo è uno strano modo di amare, ma forse è solo la dimostrazione che la separazione è momentanea.

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