2 luglio 2018

Letti da rifare 23. Il peso dei desideri

Un foglio bianco. È ciò che si sono trovati davanti i miei studenti nelle ultime due ore dell’anno scolastico. Ho chiesto loro di farne ciò che volevano: chi ha disegnato, chi ha scritto, chi ha mescolato segni e parole… Volevo che sperimentassero l’ebbrezza e la paura della libertà: che cosa scegliamo di fare di fronte al vuoto? «Vacanza» dal latino significa proprio «vuoto», uno spazio da riempire. Nessuno di loro ha lasciato il foglio bianco, dimostrando che la libertà non è lasciare tutte le possibilità aperte, ma è sfidare il vuoto e strappargli un significato. Così la loro libertà raccoglieva, in forma plastica, la sfida lanciata dalle vacanze: è impossibile non scegliere, ognuno di noi è chiamato a lasciare un segno sulla tela bianca della vita, perché scegliere definisce e compie la nostra identità. Noto invece nei ragazzi una certa paura a prendere decisioni: siamo dominati da una libertà pigra e «autoimmune», ci si crede liberi quando si può scegliere tutto e se proprio si deve scegliere lo si fa in modo da poter tornare indietro. La libertà senza scelta è fuga dalla fatica e dall’ebbrezza che comporta impegnarla per ciò che vale. Quando Alessandro Magno bruciò le navi che avevano portato l’esercito davanti al ben più numeroso nemico, i suoi soldati, prima impauriti e pronti alla ritirata con quelle navi, sbaragliarono l’avversario: per tornare a casa si poteva solo avanzare.

Soltanto decidere impegna il desiderio e lo fa crescere. Decidere viene dal latino «tagliare» (in italiano è rimasto nella parola cesoia), un tagliare fecondo che, vincolando il desiderio, lo libera dall’onnipotenza, dalla paura, dalla dispersione, che alla lunga lo spengono. Decidere è potare il desiderio e permettere alla sua linfa di concentrarsi nelle gemme migliori per dar frutto. Una vigna non potata, dopo aver prodotto un raccolto ricchissimo, diventa sterile. Così anche la nostra vita si spegne se non è incanalata dagli argini della scelta. Ma come scegliere?

Ho raccontato ai miei studenti di come Cesare, nel suo diario di guerra, descrive l’accampamento a fine battaglia: i soldati sopravvissuti, benché spossati, aspettano, nella notte, i compagni non ancora tornati. Egli chiama coloro che attendono gli amici sotto le stelle: «desiderantes», i desideranti. Ai ragazzi ho chiesto di diventare tali, come? Riempiendo un’altra pagina con i loro desideri, disponendoli così come affioravano: li hanno strappati al foglio bianco con slancio. I desideri per viverli bisogna prima riconoscerli e pesarli. Allora ho chiesto di farne la mappa nella pagina accanto, affondare la testa nel cuore per stabilirne la gerarchia, ordinandoli in base alla profondità: in basso i più radicali salendo verso i più superficiali. Abbiamo così scoperto che i desideri più profondi riguardano sempre anche le altre persone, ciò che possiamo essere e fare per il mondo, come i desideranti di Cesare. I desideri superficiali dipendono spesso da paure e attese, appaiono reali ma sono miraggi dettati dall’esterno e per contagio, dalla cultura a cui apparteniamo o dalle aspettative più o meno consapevoli degli altri: essere più belli, intelligenti, sicuri… Questi desideri non impegnano la libertà rinnovandola, ma ne disperdono l’energia. I desideri più profondi invece spingono da dentro, sono la linfa della nostra vendemmia, un destino che può trasformarsi in destinazione. Richiedono il coraggio della vera libertà e così ci liberano dalle illusioni di bene e dai miraggi di felicità.

«Mi capita di dovermi inginocchiare di colpo davanti al mio letto, persino in una fredda notte d’inverno. Ascoltarsi dentro. Non lasciarsi guidare da ciò che si avvicina da fuori, ma da ciò che si innalza da dentro». Sono le parole del diario di Etty Hillesum, ragazza ebrea che invece di scappare dalla persecuzione nazista, matura la decisione di aiutare gli altri a rischio di morire, come le accadrà ad Auschwitz nel 1943. Quello di Etty è un percorso graduale e coraggioso per abbracciare il desiderio più vero e profondo, il «desiderio vocazionale», la grande aspirazione, l’intuizione del proprio posto nel mondo, il segreto della felicità, qualunque sia la fatica da affrontare: «È giusto sentirsi a volte confusi e disorientati e chiedersi di nuovo: lo vuoi davvero? E poi, ecco la paura gelida e l’incertezza e un sospiro per dire: mio Dio, bambina, in che cosa ti stai cacciando? Ma la certezza pian piano cresce. Sono diventata abbastanza matura per assumermi il mio “destino” e per smetterla di vivere una vita casuale. Avere un destino: non è più un sogno romantico o la ricerca dell’avventura, o un’infatuazione che spinge ad azioni folli e irresponsabili, ma è una serietà terribile e sacra, ed è così ardua e a un tempo così ineludibile».

I ragazzi diventano paurosi, apatici, storditi, rabbiosi, malati, perché non li aiutiamo a discernere i desideri profondi (dovremmo farlo prima noi). Li lasciamo in balia della dispersione e disperazione dei desideri superficiali e innocui per evitare fallimenti, sofferenze, cadute. Così eliminiamo il senso di avventura e pienezza implicito nella vera libertà, che decide di bruciare le navi. Come dice Etty non si tratta di abbandonarsi ad azioni folli e romantiche, per essere ammirati, ma di maturare, cioè di non disperdersi: «Credo proprio di avere un regolatore interno. Un malumore mi avverte ogni volta che ho preso la strada sbagliata, e se continuo ad essere onesta e aperta, se conservo la mia volontà di diventare quella che dovrò essere e di fare ciò che la mia coscienza mi prescrive, in tempi come questi allora andrà tutto a posto». La strada sbagliata impedisce il viaggio, che in inglese si dice «travel», da noi ne rimane traccia nella parola «travaglio»: il viaggio è un parto, generare chi siamo chiamati ad essere, la «diritta via» smarrita da Dante in apertura del suo poema. Il peccato non è la trasgressione di una regola, ma il tradimento di se stessi. «A te convien tenere altro viaggio» gli dice Virgilio: devi ancora partorirti.

In quelle due ore i ragazzi si sono sorpresi di fronte all’ordine del cuore, al peso dei desideri: volevano realizzare proprio quelli che avrebbero comportato più fatica e si sentivano già più liberi da quelli superficiali. Il desiderio è la linfa della vita umana, se non lo riduciamo a bisogni e piaceri, è slancio che consente di esplorare il mondo e integrare la resistenza che il mondo oppone: è il bambino nato dal travaglio. Maturare ha una radice che indica l’arrivare al tempo giusto, la stessa di mattiniero, chi si alza per tempo. Né acerbo né marcio, maturo è chi rispetta il tempo delle stagioni, fedele alla chiamata che porta dentro, al dono che può fare di sé agli altri e al mondo. Per questo Agostino arriva a dire che pregare è prendere coscienza di ciò che Dio desidera in noi e attraverso di noi. Ne ho avuto conferma recentemente, leggendo il racconto di un alunno, frutto di un compito in cui chiedevo di inventare una storia che rappresentasse il processo di maturazione di questi anni. Il protagonista è Lupo, un ragazzo che, resosi conto di non esser amato e di non aver amato, lascia la sua casa e si avventura in un bosco «oscuro come il suo cuore». Si imbatte in alcuni villaggi, le cui tribù lo accolgono. Prima la Tribù dell’Oro, tra ricchezze e agi, poi quella dello Sballo, votata alla soddisfazione dei sensi, poi quella delle Donne, abitata da meravigliose creature adoranti, infine quella del Sangue, dove si conquista il rispetto lottando. In questa tribù Lupo rischia la vita e si ritrova moribondo e disperato sul ciglio di un dirupo. Nessuna delle tribù gli ha offerto il senso dell’esistenza: ha soddisfatto desideri reali, ma superficiali e insufficienti. Però, nel momento in cui la notte nuvolosa si squarcia e la Luna mostra il suo volto, Lupo comprende il suo nome, scopre che la ricerca è riposta e ha risposta dentro di lui, non fuori, è chiamato a qualcosa di grande, non ancora certo, ma consistente e reale, che è già ma non ancora. La maturità si cela nel desiderio radicale, che chiama a partorirsi, a cambiare sé e il mondo da dentro verso fuori.

Il letto da rifare oggi, l’ultimo prima della pausa estiva, è dedicato a ciò che una vacanza può darci: la verità dei desideri. Ridimensionando quelli superficiali, dettati da paure, aspettative, bisogni effimeri, possiamo provare ad abbracciare il desiderio radicale, che è linfa della vita e fa di noi un dono per il mondo: più ci impegna più rinnova lo slancio, perché è il modo in cui compiamo la nostra vita e quella altrui. Il desiderio radicale dà frutto senza stancarsi, anzi si esalta (più insegno, più voglio insegnare), a differenza di quello superficiale che alla lunga stanca. Nella notte di san Lorenzo farete un gioco serio: alzerete lo sguardo al cielo, convinti che, se un corpo celeste sfolgora cadendo, un corpo terrestre si innalza, con la stessa luce ed energia. E custodirete quel desiderio nel vostro silenzio. Come Etty e Lupo siamo chiamati a cose grandi, che si realizzano gradualmente, con la testa nel cuore e i piedi per terra. Siamo chiamati alla festa della vita compiuta, dove si beve il vino della nostra vendemmia. Auguro a voi e ai vostri figli di diventare veri «desideranti»: chi sa pesare i desideri. Ci rivedremo il primo lunedì di settembre per un nuovo anno scolastico. È tempo di tacere e riposare un po’. Grazie a tutti e buon viaggio.

Corriere della Sera, 2 luglio 2018 – Link all’articolo e ai precedenti

2 risposte a “Letti da rifare 23. Il peso dei desideri”

  1. Giuliana Pardini ha detto:

    Anche io sono un’amante delle parole….e sono rimasta senza dopo aver letto questo meraviglioso articolo, meraviglioso del resto come i tuoi libri e saggi….peraltro penso che anche tu sia una splendida persona….
    Grazie per tutte le emozioni che mi trasmetti con i tuoi scritti…
    Giuliana

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