2 aprile 2016

Zibaldino: Modigliani, Rilke, Keats

1.

Nessuno ha mai dipinto le donne come lui e nessuno come lui si è astenuto dal dipingere i loro occhi. Sapeva che dipingerne gli occhi sarebbe stato troppo, sarebbe stato svelarne il segreto. Lo fece raramente, soprattutto con sua moglie, che ne pagò un prezzo altissimo. Vorrei imparare a guardare negli occhi allo stesso modo, come la soglia di un mistero che non mi appartiene e che posso solo accogliere come un dono fatto al mondo. Vorrei imparare a guardare così amici, lettori, studenti, passanti… Vorrei imparare a guardare.

2.

“Se la vostra vita quotidiana vi sembra povera, non l’accusate: accusate voi stesso, che non siete assai poeta da evocarne la ricchezza: ché per un creatore non esiste povertà né luoghi poveri e indifferenti” (R.M.Rilke, Lettere ad un giovane poeta”)
Rileggevo queste parole di un libro che mi ha segnato indelebilmente in tempi remoti e le cui righe sottolineate risuonano come un’eco nella mia vita interiore. Sì, perché di questo si tratta, di vita “interiore”, aggettivo ormai in disuso. Al massimo parliamo di vita intestina, perché ci interessa più la digestione, la pancia piatta o gli addominali, invece di curare quella fonte da cui scaturisce ogni ricchezza e quindi il segreto della felicità in qualsiasi circostanza ci si trovi. Oggi andando al supermercato c’era ricchezza in un sorriso di donna, in una mano che sosteneva un passo incerto, in una bimba che faceva cadere tutto da uno scaffale, in una fioritura improvvisa su un balcone, in una distanza che provoca una dolorosa nostalgia che è la misura dell’affetto, in una paura che non è altro che l’altra faccia di una sfida lanciata dalla vita… Non voglio essere povero, e se la mia vita diventa povera è solo colpa mia. Oggi lo so. 

3.

“Quanto a me, io non so come esprimere la mia adorazione per tanta bellezza: voglio una parola più luminosa di luminosa, più bella di bella. Vorrei che fossimo farfalle e vivessimo tre soli giorni d’estate – tre giorni così, con te, sarebbero più colmi di delizie di quante ne potrebbero contenere cinquant’anni di vita ordinaria” (J.Keats, lettera a Fanny Brawne).
Il poeta per un attimo ci svela il suo segreto: trovare la parola che superi la parola, ma in quell’oltre c’è solo il silenzio, si balbetta nel tentativo di dire il mistero per cui sarebbe possibile fermare nell’istante pieno quello che la vita, con il suo scorrere, sembra poter solo promettere. Quei tre giorni d’estate come farfalle sono l’eco di un paradiso perduto, che la parola cerca di recuperare, di riparare. La parola “impossibile” tradisce il paradiso, e il solo fatto che aneli a nominarlo è testimonianza che esiste. Anche io scrivo perché vorrei che il mondo fosse all’altezza dei desideri del mio cuore, che desidera, spesso nonostante me, quel paradiso. A colpi di parole cerco di tirarlo giù quel paradiso, di dargli la possibilità di esistere: in me, in te. E insisto e insisto. E la vita resiste e resiste. Sono le volte che vorrei amare meno la bellezza e potermi accontentare di molto meno, ma so che non sarei più io.

 

 

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