2 luglio 2012

Dal carcere si evade con un libro

La mia avventura a San Vittore

Sono stato in prigione. In prigione ho conosciuto la libertà. Non è l’inizio di un racconto, ma solo un pezzo di bruciante verità. Sono stato invitato a incontrare i giovani detenuti del carcere di San Vittore di Milano, quelli confinati nel Primo Raggio (Reparto penale giovaniadulti). Le volontarie (Ilaria, che mi aveva cercato e inseguito per un po’, e Daniela, del Gruppo Carcere Cuminetti), in collaborazione con le educatrici dei ragazzi, avevano organizzato un ciclo di incontri con scrittori.

Quando mi sono presentato davanti al carcere avevo paura. Cosa avrei mai potuto dire a un gruppo di ragazzi tra i 18 e i 25, condannati per reati di ogni tipo? Che cosa avevamo in comune loro ed io? E poi magari erano anche pericolosi… Ad aumentare la mia paura e il mio senso di inadeguatezza porte automatiche e ferrate si sono aperte troppo lentamente davanti a me. Dopo, i controlli: non puoi portare nulla dentro, neanche il cellulare. Avevo in tasca un’aspirina dimenticata nel blister e mi hanno fatto lasciare anche quella. Solo libri.

Potevo portare solo me e la mia anima là dentro. E magari qualche libro che volevo regalare ai ragazzi (sempre d’anima si tratta).

Superata l’occhiuta sequela di controlli e permessi, mi sono ritrovato al centro del carcere, nell’atrio dal quale si dipartivano tutti i raggi, una specie di ruota del destino, con opzioni tutte cieche. Era una stanza circolare dalla volta a cupola alta e screpolata, per metà di un colore che un tempo doveva essere più luminoso e marezzata di umidità. Al centro un altare con un crocifisso, per la celebrazione della Messa domenicale. Su un lato, in una nicchia, la statua di una Madonna o di un Cristo, non ricordo, dalla superficie screpolata tanto da sembrar lebbrosa. La luce attutita entrava nei corridoi di sbieco, quasi a forza, attraverso alti portoni di sbarre che immettevano in ogni raggio. Tutti erano rintanati nelle loro celle. Pochi metri quadrati per sei o otto persone. Solo i detenuti tossicodipendenti possono stare in corridoio oltre l’ora d’aria. Per il resto solo quelle quattro mura troppo strette anche per un riparo di animali in campagna.

In quel momento ho capito. Non sappiamo di avere qualcosa finché non la perdiamo o finché non vediamo qualcuno che l’ha persa. Mi era già capitato leggendo libri e facendo assistenza agli handicappati o i senzatetto: avevo imparato che non posso dare per scontato di avere una mente che funziona, un corpo che si muove, mani che scrivono… avevo imparato che non posso dare per scontato di avere una casa e una cena tutte le sere. Ma una cosa non avevo mai saputo di averla – non l’ho mai persa o non ho mai visto nessuno che l’aveva persa a quel modo – perché è talmente incollata a me che non la vedo mai, neanche allo specchio. La libertà.

In carcere ho saputo di essere libero. Ho saputo che io posso scegliere se alzarmi o no la mattina, posso scegliere se uscire o no, e dove andare. Dove andare. Ho sentito la collocazione esatta della libertà nel mio corpo. Si trova all’altezza del diaframma e si alza e abbassa, assecondando o determinando il movimento respiratorio, come sa chi deve fare una scelta da cui dipende la propria felicità e trattiene il respiro o lo sputa fuori.

Poi però la paura mi ha abbandonato. Di che cosa potevo mai avere paura? Io avevo tutto, anche se avevo dovuto lasciare tutto nell’armadietto di ferro. Io mi portavo tutto con me, dentro di me. Quel tutto era la mia libertà.

Così sono entrato nel Primo Raggio e mi hanno accompagnato nella «nuova» stanza-biblioteca con i libri accatastati e in via di catalogazione. Una stanza di pochi metri quadri con scaffali in ferro e una ventina di ragazzi seduti o in piedi ad aspettarmi. Abbiamo parlato di loro e di me, delle loro vite e della mia. Forse loro avevano più paura di me, temevano che io li giudicassi. Ma mentre parlavo e li fissavo negli occhi qualcosa lentamente si è sciolto: il nodo della paura o del giudizio. Non avevo niente di più di loro, non ero migliore di loro, i corpi che avevo di fronte potevano essere il mio, magari con qualche tatuaggio in meno.

Mentre parlavo, Omar, occhi azzurri e da bambino, si è commosso. Qualcosa dentro di lui si liberava, così come stava accadendo a me. Non era la superficiale emozione del momento, né una troppo rapida e ingiustificata reazione pietistica. Era l’incontro di due storie al crocevia delle loro scelte e del caso.

Omar alla fine dell’incontro ha chiesto alla sua educatrice di incontrarmi a tu per tu per raccontarmi la sua storia. Non l’ha mai fatto prima, se non per confessare davanti ai giudici. Così qualche giorno dopo sono tornato in carcere per parlare solo con lui. Mi ha raccontato la sua terribile e tortuosa vicenda. Quello stesso giorno hanno inaugurato la biblioteca del Primo Raggio, che Omar, insieme a Vito (detenuto nello stesso raggio anche se più anziano, e con il volto di un padre che aiuta suo figlio a crescere), hanno costituito catalogando più di 3000 volumi, frutto di raccolte e donazioni. Omar mi ha raccontato che dopo un anno di carcere era disperato. La noia, la rabbia, l’odio lo divoravano. Così ha afferrato un libro, anzi un altro detenuto gliel’ha prestato. Da lì è cominciato tutto: «Leggendo quelle pagine dimenticavo di avere intorno altre sette persone e magari la televisione accesa in pochi metri quadrati. Leggendo quel libro a poco a poco mi impadronivo nuovamente dei miei pensieri e ritornavo in me. Che vita è questa?». I libri ti ricordano cosa ti manca o hai perso.

Da quel momento Omar non ha più smesso di leggere e ha coinvolto altri nella sua folle avventura di aprire la biblioteca del Primo Raggio, inaugurata con un discorso pronunciato da Cristian, un altro dei ragazzi detenuti e amico di Omar. Erano presenti tutti i detenuti del raggio, di nazionalità diverse, ma tutti eleganti per l’occasione. A seguire c’è stato il buffet, interamente preparato da quelli di loro che in cella sono diventati anche ottimi cuochi.

Omar mi ha scritto una lettera a mano ed è iniziata una corrispondenza. Mi ha raccontato che i suoi libri preferiti sono quelli della saga di re Artù. Odia Lancillotto per la sua mancanza di lealtà. Ama Re Artù perché è un re rispettato da tutti, e non perché temuto, ma perché amato dal popolo che lui ama. Omar ha sempre cercato il rispetto nella violenza, nei soldi e nel potere, ma poi ha perso tutti gli amici che stavano con lui per pura convenienza e ha capito che il rispetto è un’altra cosa, passa più che dal dominare e controllare, dall’amare e dal darsi. E così hanno sempre fatto sua nonna che lo ha cresciuto e sua sorella con lui: le uniche che sono andate a trovarlo in prigione. E infatti Omar ama anche il personaggio di Galaad, colui che va alla ricerca del santo Graal, perché è coraggioso, puro e innocente. Omar lo ama perché vorrebbe essere come lui. E non dimenticherò mai quando mi ha detto, con gli occhi di un bambino sincero, scoperto con il dito nel barattolo di marmellata: «Io lo so di non essere cattivo».

Lo dimostrano quei tremila libri con la loro fascetta e il catalogo ben ordinato per autore e genere, con in copertina l’immagine realizzata da uno dei detenuti: due mani le cui manette si spezzano grazie ad un libro e sotto la scritta «Vuoi evadere? Leggi un libro…».

La Stampa, 2 luglio 2012

ps. se qualcuno volesse donare dei libri (soprattutto romanzi) alla biblioteca del Primo Raggio può mandarli a:

Casa Circondariale San Vittore

Piazza G. Filangeri, 2

c.a. Area Pedagocica – 20123 Milano

36 risposte a “Dal carcere si evade con un libro”

  1. Lucia Deri ha detto:

    Ho dei libri che ho deciso di regalare, come posso farglieli avere? se mi aiutate ve ne sarò grata!!! grz per quello che hai scritto…….

  2. Un racconto, il tuo, che fa capire molte cose. Fa pensare a quelle persone, che in carcere, nella solitudine, talvolta disperata, maturano un’amicizia particolare e intensa con il libro! su rai.tv se ti va puoi guardarti: Fratelli e sorelle. Storie di carcere un programma trasmesso su RAITRE. Ciao.

  3. Patrizia ha detto:

    Anch’io sono andata alcune volte a San Vittore con il gruppo della mia parrocchia a cantare la domenica. Ho visto sguardi così intensi e umani che non dimenticherò mai. E’ un’esperienza, quella del carcere, da non augurare a nessuno, però penso che alcune persone fuori dal carcere siano meno libere dei carcerati; la libertà vera è quella del cuore in comunione con Gesù ( vedi tante esperienze come San Pietro in prigione, cantava, lodava il Signore…vedi il Vescovo Van Thuan…)

  4. Rob* ha detto:

    Caro Alessandro,
    le tue parole mi hanno riportato indietro di un anno, quando per tutto luglio mi è stato fatto il dono di poter collaborare ad un laboratorio di teatro tenuto per i detenuti nella casa circondariale della mia città. Tra l’altro, gli incontri si tenevano nella biblioteca, circondati da scaffali pieni di libri.
    Le prime volte ero spaventatissima, mi sentivo inadeguata, estranea, anche in pericolo. Mi disorientava molto lasciare “tutto” dietro le mie spalle, dietro quelle due porte spesse chiuse a doppia mandata; mi sembrava di diventare totalmente vulnerabile, di essere quasi spogliata di ciò che ero. Solo dopo un po’ ho capito che Roberta abitava tutta dentro di me, e che ero “ben equipaggiata” anche senza gli orpelli che avevo lasciato nella borsa dentro l’armadietto.
    E’ una dimensione particolare,quella del carcere… capisci il valore del tempo, dello spazio, della libertà, della volontà… è come se mi avesse sbattuto in faccia che nulla di ciò che ho è scontato, e che sono io a poter decidere ogni giorno se investire sulle ricchezze che mi son donate, o lasciarmele scivolare dalle mani.
    I ragazzi che ho incontrato, con i quali la mia storia si è incrociata, i loro occhi, il loro tacito affetto, il loro credere e spendersi in tutto e per tutto per quel sogno che era lo spettacolo che stavamo preparando, mi hanno insegnato che l’umanità è bella, anche se ferita da errori pesanti e passati tormentati. Mi ha insegnato che, anche nella gabbia più stretta, nelle situazioni più assurde e dis-umane, può esserci umanità e amore. La luce brilla più forte dove sembrerebbe dominare il buio.
    E’ stata un’esperienza profondissima della quale ancora oggi ringrazio. E un piccolo grazie anche a te per avermi riportato alla memoria tante piccole cose di quei giorni e per avermi permesso di condividerle.

  5. giovanna ribatti ha detto:

    ciao, io sono appena tornata dal mio lavoro (in carcere), ho giudato per un’ora in una macchina torrida, sono tornata stanca ma lieta. riconosco bene l’esperienza che tu hai vissuto e raccontato così bene, è anche la mia quotidianamente;conosco bene gli sguardi i sorrisi e le lacrime di chi vive in un carcere e ti chiede di aiutarlo a vivere e a non sentirsi solo. Ora più che mai ci sono giovani adulti spesso alla loro prima esperienza detentiva, e per loro è difficile il percorso che hanno davanti, spesso il loro sguardo è perso o precocemente indurito, ma credimi basta poco per sentire la loro vera età e quei desideri che finalmente come ragazzi, possono esprimere. basta ci sarebbe tanto da dire!, verresti ad incontrare anche
    i miei detenuti????

  6. ilaria ha detto:

    ciao Alessandro, una precisazione, l’invio dei libri va indirizzato a:
    Casa Circondariale San Vittore
    P. Filangeri 2
    c.a. Area Pedagocica
    MIlano

    molto importante la precisazione area pedagogica grazie

  7. Vale* ha detto:

    Prof,questo articolo che ha scritto è commovente..e così vero.
    Sono una ragazzina di 18 anni e ho ancora da imparare tante cose della vita. Un anno fa però grazie ad un progetto sulla legalità portato avanti dalla mia scuola ho avuto l’opportunità di “lavorare” a stretto contatto con dei ragazzi del carcere minorile di un paese vicino al mio. Al primo incontro ,come lei,ero spaventata.Non sapevo cosa aspettarmi,come comportarmi,soprattutto cosa dire a dei ragazzi del genere. E lo ammetto,avevo paura. Uno di loro,ci dissero,aveva commesso un omicidio.
    Ma poi loro sono comparsi nell’aula della nostra scuola. Guardavano a terra,ogni tanto buttavano l’occhio su ciò che li circondava e quegli occhi brillavano,ogni tanto guardavano noi ragazze,di sfuggita,pieni di vergogna. E poi erano così legati ai loro educatori,così grati,che ogni volta che li guardavano gli sorridevano,e non parlo di quei sorrisi falsi che molti studenti possono rivolgere ai loro insegnanti. Erano quei sorrisi che può rivolgere solo un figlio ai suoi genitori.
    Ognuno di loro aveva una storia diversa,ed era impressionante vederli intimiditi e spaventati da noi,dalla nostra “normale” realtà. Le ore a scuola,per noi un carcere,erano per loro la libertà. Si divertivano a scrivere temi,relazioni,a raccontarci di cosa loro imparavano nelle loro celle. Con il passare del tempo noi,ragazzi che abbiamo tutto dalla vita e loro,che invece tutto l’hanno perso,siamo diventati un gruppo,e i professori erano soddisfatti del loro importantissimo lavoro.
    Sono grata per quei mesi,non solo ai prof,ma anche e soprattutto ai ragazzi, le loro parole sono state forse più efficaci di tanti libri scolastici studiati velocemente.
    E grazie a lei prof,per aver condiviso la sua bellissima esperienza con noi! 🙂

  8. Cristina Z. ha detto:

    Volevo condividere questo…” Il carcere può essere casa se l’orizzonte è l’infinito”
    http://www.tempi.it/simone-il-carcere-puo-esser-casa-se-lorizzonte-e-linfinito#axzz1zRYIaPEb

  9. Monica ha detto:

    Ho avuto la fortuna di fare un’esperienza di insegnamento in carcere e da allora non riesco più ad andarmene, il tempo per stare con loro tutt’ora lo trovo sempre, mi sono innamorata di questa realtà! In carcere ho trovato verità, forse perchè chi si racconta non ha niente da perdere e quindi si gioca a carte scoperte. E continuo a trascrivere le mie impressioni, perchè non vorrei perdere ciò che di prezioso mi dona ogni incontro con loro. E credo che sostenere la speranza dei detenuti sia compito di tutta la collettività, il carcere (e il modo in cui viene gestito) interroga tutta la società e aspetta risposte, perchè le responsabilità sono molteplici, non basta confinarne alcune nello spazio angusto di una cella…

    • sergio fenizia ha detto:

      …e da allora non riesco più ad andarmene, il tempo per stare con loro tutt’ora lo trovo sempre,

      E’ un po’ come per alcuni il “mal d’Africa”. Però qui è meglio, perché si tratta di persone.

  10. Claudia ha detto:

    Scrivere un solo tweet riguardo questo articolo è riduttivo, specialmente quando non ci capisci niente di tecnologia e hai tante di quelle parole in testa che 140 caratteri non basterebbero nemmeno a dirti grazie.
    Le tue parole mi hanno tenuto sveglia tutta la notte. E’ stato come avere in testa miriadi di voci e sulla pelle animali striscianti. Mi sono tornati alla mente gli ultimi versi del Primo Libro dell’Odissea che ti piace tanto citare. Telemaco che pensava, al viaggio che Atena gli aveva additato.
    E così mi sono ritrovata a pensare a queste tue parole, alla storia di Omar e della sua forza.
    Ho pensato che questa iniziativa non deve rimanere solo una bella notizia di cui ci si dimenticherà appena passata l’emozione superficiale.
    Non so cosa significhi perdere la libertà. La libertà per la quale lotto tutti i giorni della mia vita: la libertà di parola, di espressione, la libertà di sbagliare e rialzarsi, la libertà di lasciar crescere i fanciulli del mio gruppo di catechismo secondo il loro essere cercando di seminare e innaffiare ma senza volere frutti a tutti i costi.
    La storia di Omar, attraverso le tue parole mi ha schiaffeggiato. Perché mi sono accorta, alla soglia dei miei 32 anni, che devo fare ancora molto. Lo devo fare perché appartengo alla società civile prima di tutto e poi perché ho la forza della fede e dell’essere Cristiana che mi spinge a cercare le pecorelle smarrite, lasciando per un attimo le altre novantanove. Sono proprio le pecorelle smarrite, come Omar poi a dimostrarti i tuoi limiti. Un ragazzo che attraverso i libri, in una cella, nella quale spazio e tempo sono solo delle categorie filosofiche, ha scoperto di essere libero e di non essere poi tanto cattivo, ha scoperto di avere un valore per cui vale la pena lottare anche lì dentro. Questo mi ha fatto piangere lacrime amare, perché lui ha insegnato qualcosa a me, attraverso te e le tue parole. Parole che, come ti è stato detto a Gavoi possono essere anche confortevoli, ma arrivano dritte all’anima più di una frase ad effetto o di una cruda.
    Per questo motivo innanzitutto regalerò qualche libro a questi ragazzi, ma non solo ora, ma ogni mese. I primi che vorrei donare sono proprio miei e quelli che ho più amato. Sono sempre generosa ma per quanto riguarda i libri della mia biblioteca personale rischio di diventare davvero taccagna, perché ognuno dei 250 corpi che fanno bella mostra di sé nella mia stanza sono un pezzo della mia storia, sono una parte della mia anima.
    Però, prendendo in prestito le parole di Ennio Flaiano: “Il libro sogna.Il libro è l’unico oggetto inanimato che possa avere sogni”, voglio regalare una parte di quei sogni a loro.
    Scusa la lungaggine di questo commento, ma avevo bisogno di ringraziarti per questa notte insonne, una delle più fruttuose della mia vita.
    Grazie ancora,
    Claudia

  11. Narcisa ha detto:

    Profonde, come sempre, le tue parole. Grazie!
    Condivido pienamente:
    “I libri ti ricordano cosa ti manca o hai perso.” e
    “Vuoi evadere? Leggi un libro…”
    mi permetto di condividerne un’altra:
    “Io scrivo per salvare tutte le cose che ho”
    (Patricia MacLachlan)

  12. Alberto ha detto:

    Periodicamente le biblioteche procedono allo scarto librario e i libri che vengono scartati vengono buttati via. Non necessariamente però sono da buttare: si scartano libri perché non richiesti dagli utenti negli ultimi anni o perché un pò vecchi, o perché non in perfette condizioni, o perché se ne compra una nuova edizione. Anche le donazioni di privati e i lasciti alle biblioteche vengono solo parzialmente accolti, e parte viene buttata. Invece che cestinare questi libri si potrebbe destinarli alle carceri dove operatori e carcerati potrebbero vagliarli e tenere per la biblioteca del carcere ciò che potrebbe interessare.
    Si potrebbe poi inserire le biblioteche delle carceri nei sistemi bibliotecari provinciali: in questo modo i carcerati oltre ad accedere ai libri della loro biblioteca potrebbero accedere all’intero catalogo provinciale (per lo meno nella mia provincia c’è questo genere di servizio che potrebbe essere attivato anche nelle altre province se non ancora attivo).

  13. Paola Pirola ha detto:

    Grazie di aver scritto questo articolo. Me ne nutro ancora dopo giorni. Paola.

  14. Emanuela ha detto:

    pelle d’oca e una lacrima sincera per tanta bellezza di esprimersi e per quello che sei riuscito a dare a quei ragazzi…

  15. Charles ha detto:

    E’ un raconto commuovente che ti induce a molteplici riflessioni.
    Quante cose abbiamo gratuitamente e quotidianamente e non le apprezziamo.
    Com’è miope l’uomo nella ricerca affannosa di felicità.
    Ieri è stata scoperto il “Bosone di Higgs”, azzardatamente ribatezzato come la “particella di Dio”. Vogliamo comprendere l’infinito e non sappiamo scoprire l’universo che c’è in noi, in chi sta vicino e nell’ambiente in cui viviamo.
    Un’esperienza come questa fra i carcerati, ti riporta a dare il valore ad ogni respiro.

  16. letizia@elestici.com ha detto:

    Grazie per essere stato con i ragazzi- bibliotecari. Grazie per averne scritto con tanta sensibilità e sincera apertura di mente e cuore.

    letizia

  17. Giuseppe ha detto:

    Mi hai fatto ricordare quando ho cercato di donare un po’ del mio tempo libero ai pazienti psichiatrci, come volontario. Sebbene loro non vivano in una prigione, con tanto di sbarre, certamente la sofferenza mentale, e lo stimga ad essa associato, ti conduce giorno dopo giorno in una vita da “carcerato”.

    Sono proprio queste esperienze che ti fanno coprendere l’immenso valore della libertà.

    Un ragazzo in cura ci ha confessato che finalmente riusciva a prendere un bus senza essere più accompagnato, dopo anni che non riusciva a farlo da solo, grazie all’amicizia e alla generosità del gruppo di volontariato (oltre ovviamente a quello dei medici dell’ASL). Poi, subito dopo, ha esclamato:

    “E’come se avessi preso una seconda laurea!”.

    La tua dura e diffcile esperienza all’interno di un carcere mi ha fatto pensare a quella mia esperienza, durata due anni, e alla libertà in senso lato, in tutte le sue forme.

    Credo che riuscire a donare una po’ di noi stessi, verso chi è più sfortunato di noi, sia un grande gesto di umanità e di civiltà che non può che arricchirci molto, aiutandoci al contempo a dare più valore alle cose che nella nostra quotidianità sembrano ovvie e scontate.

    • sf ha detto:

      I pazienti psichiatrici… e chi li assiste. Un mondo di dolore …e di amore! che solo chi ci vive può capire. Grazie di averne parlato.

  18. PasRic ha detto:

    Le nostre prigioni differiscono di poco, come avrebbe detto il grande Borges.
    D’altronde, qualsiasi mondo è creato con il preciso scopo di evaderne. Basta trovare la chiave giusta. Un buon libro e la fantasia sono il passepartout perfetto.

  19. ilaria ha detto:

    I ragazzi hanno letto i vostri commenti, erano davvero increduli per le belle parole,i buoni propositi che hanno trovato in voi.Non pensavano che la loro condizione avrebbe suscitato un così sensibile interesse; una volta dentro, la sensazione è di abbandono.Ho raccolto e messo insieme alcuni loro pensieri che riporto qui sotto. Grazie ancora da parte mia, ma soprattutto da parte loro. Ilaria

    Siamo un po’ intontiti da quanto si è creato intorno a noi.Avete presente il giorno successivo dopo avere festeggiato l’ultimo dell’anno, ecco!! Questa è l’attuale nostra sensazione.Comunque guardando avanti verso il cammino che ci siamo predisposti vogliamo esprimere ancora una volta un ringraziamento alle persone che ci supportano in questo percorso.
    Da parte nostra possiamo solo dirvi che continueremo il nostro viaggio verso il futuro, un futuro che ci permetta di vivere diversamente. Proprio per questa ragione chiediamo di essere continuamente supportati e non solo in questo progetto, ma altrettanto verso il mondo libero.
    Proprio perchè non è facile riprendersi una vita normale nella società attuale.
    I protagonisti di “Vuoi evadere? leggi un libro”

  20. sergio fenizia ha detto:

    Che bello, questo articolo!
    Dopo tanti e ricchi commenti, c’è poco da aggiungere. Soltanto il nome di una piccola donna nubile del secolo scorso, Vita Maria Nardi.
    Non è famosa, ma da lei, un caro amico giornalista ha assimilato rispetto e amore per i detenuti. Da lei, che a malapena riusciva a scrivere poche righe, e che con fatica, da grande, “si era presa la terza elementare”.
    Per tutta la vita, Maria ha fatto la “colf”. Gli ultimi 31 anni, in una famiglia numerosa – quella del mio amico –, nella quale ogni mese, in un certo giorno, incoraggiava i pargoli a privarsi dei loro fumetti (“Topolino”, “Tex”, ecc.) perché lei potesse “portarli ai carcerati”. E quei bambini, ormai adulti, ne custodiscono un ricordo indelebile.
    Indelebile. Un po’ come la traccia che lasciano gli scrittori che raccontano cose vere e positive, senza piegarsi alla moda o alla critica, senza tradire i lettori.
    Ah, …e auguri per il film del tuo primo romanzo!

  21. alessandra innocenti ha detto:

    mi piacerebbe comunicare con un uomo saggio come omar
    pensi che sia possibile ???

  22. gold price ha detto:

    Nel primo raggio lo attende la stanza-biblioteca, con i libri accatastati e in via di catalogazione. Non è certo la sala lettura di una grande libreria, bensì «una stanza di pochi metri quadri con scaffali in ferro e una ventina di ragazzi seduti o in piedi ad aspettarmi. Abbiamo parlato di loro e di me, delle loro vite e della mia». E nello scorrere delle parole, qualcosa si è lentamente sciolto: «Il nodo della paura o del giudizio. Non avevo niente di più di loro, non ero migliore di loro, i corpi che avevo di fronte potevano essere il mio, magari con qualche tatuaggio in meno. Mentre parlavo, Omar, occhi azzurri e da bambino, si è commosso. Qualcosa dentro di lui si liberava, così come stava accadendo a me. Non era la superficiale emozione del momento, né una troppo rapida e ingiustificata reazione pietistica. Era l’incontro di due storie al crocevia delle loro scelte e del caso». Il ragazzo che si commuove chiede un colloquio privato con lo scrittore. Lo ottiene. Inizia una corrispondenza tra i due. Quello stesso giorno si inaugura la biblioteca del primo raggio, che Omar, assieme a Vito, «detenuto nello stesso raggio anche se più anziano, e con il volto di un padre che aiuta suo figlio a crescere» hanno costituito catalogando più di 3.000 volumi, frutto di raccolte e donazioni. Scrive D’Avenia che erano presenti tutti i detenuti del raggio, di nazionalità diverse, ma tutti eleganti per l’occasione. «Omar mi ha raccontato che dopo un anno di carcere era disperato. La noia, la rabbia, l’odio lo divoravano. Così ha afferrato un libro, anzi un altro detenuto gliel’ha prestato. Da lì è cominciato tutto: “Leggendo quelle pagine dimenticavo di avere intorno altre sette persone e magari la televisione accesa in pochi metri quadrati. Leggendo quel libro a poco a poco mi impadronivo nuovamente dei miei pensieri e ritornavo in me. Che vita è questa?”. I libri ti ricordano cosa ti manca o hai perso».

  23. ANELE ha detto:

    Mi sento molto vicina a Omar. Io non sono stata in carcere ma per mia scelta a 18 anni ho deciso di chiedere aiuto a San Patrignano affinche mi aiutassero a gestire la mia libertà.
    Lì ho trovato una vera famiglia, ho iniziato a leggere, a leggere tanti libri,ho concluso i miei studi e poi sono tornata a casa.
    Mi sono sentita molto più libera lì dentro, in una stanza con altre otto ragazze, di quanto mi sentissi prima, prigioniera della mia mente.
    Sono passati quindici anni dal giorno in cui ho messo il piede in comunità ed ora vivo, con mio marito e i miei due figli, in una casa sommersa di libri….
    grazie prof.

  24. Norma ha detto:

    Penso che aprire un libro sia come aprire la porta scorrevole del treno o fare il check-in all’aeroporto, sia preparare una valigia leggera e pronta ad essere riempita di incontri, sguardi, voci, volti ed emozioni e la cosa più bella è che il viaggio non è mai noioso, quando compri un libro ti fidi di lui, sì leggi la trama dietro, ma non sai mai cosa ti aspetta ritrovarti catapultato nell’800 e subito dopo tornare nella contemporaneità per poi ripartire e magari giungere in uno dei futuri possibili.. Puoi incontrare gente di tutte le razze, commentare i loro abbigliamenti strani, assaporare i sapori e gli odori dei loro cibi, osservare le strambe abitudini di un lord inglese, sognare con le favole della piccola principessa, puoi vivere le loro emozioni, ritrovarti a pensare “Cavolo, ma queste cose le provo anche io!” leggendo Catullo o Pascoli,ritrovarsi a piangere per una storia d’amore finita male o a voler consolare quello che ha subito un torto, tenere la mano a quella ragazza che assomiglia così tanto alla tua migliore amica. Leggere un libro è un caleidoscopico viaggio nella vita e comprare un libro è il più grande atto di libertà che si possa compiere. Complimenti ai detenuti di San Vittore, auguro loro di sfogliare il più grande numero di viaggi, di vivere il numero più grande di vite inebriati dall’odore della carta e dell’inchiostro. Attraverso il tuo racconto mi sono ritrovata a riflettere sulla libertà, su quanto la diano per scontata e su quale grande potere abbia un libro. Grazie

  25. Silvia ha detto:

    Ho conosciuto una scuola dove “Cerca l’eccellenza: l’uomo è fatto a immagine di Dio” è la frase di benvenuto, è l’obiettivo che gli insegnanti propongono ai ragazzi e li aiutano a realizzarlo mettendosi in gioco con loro. Sempre nell’atrio, a terra, la statua di un gorilla ricorda, per antitesi, il monito dell’Ulisse dantesco “Fatti non foste a viver come bruti …” (affisso sul muro); un pedalò in legno è frutto della comune progettazione ed opera dei quattro indirizzi di questo istituto professionale: Tessile, Ristorazione, Alberghiero, Liceo del Lavoro.
    Una scuola dove la bellezza è di casa, le aule sono pulite e ben arredate, con banchi di legno realizzati artigianalmente, dove non vi sono scritte nei bagni, dove vi è ordine e cura in ogni dettaglio, dove ogni oggetto (vasi, soprammobili, quadri, citazioni d’autore …) ha un significato estetico e simbolico, oltre che funzionale. Dove le classi, a turno, si occupano della pulizia dei locali; dove in mensa si mangia su una tavolata in pregiato legno fossile della Nuova Zelanda. Ci vuole fiducia, coraggio per dare una simile struttura in mano a degli adolescenti scapestrati (potrebbe nascondersi qualche potenziale vandalo tra di loro!); ma qui si è convinti che “i ragazzi sono sensibili al contraccolpo della bellezza e, automaticamente, ne hanno cura”.
    Sì, in questa scuola si scommette su di loro, sulla possibilità di tirar fuori il meglio di ognuno. E così, può accadere il “miracolo”, ad esempio, di un alunno che inizia la prima mettendo in chiaro “io non ho nessun progetto per il futuro e non m’interessa farne!” e che poi esce dalla maturità con 90!
    È una scuola dove il corpo docenti ha un’età media di trent’anni, appassionati. Insegnanti giusti, che sanzionano quando occorre, che danno 3 per un compito in bianco, salvo poi fermarsi a scuola – gratis! – il pomeriggio stesso, per rispiegare la lezione. Perché il rapporto insegnante-alunno non può limitarsi ad un voto negativo; altrimenti come può, l’alunno, colmare le sue lacune, credere in se stesso, recuperare? Qui gli insegnanti si fermano i pomeriggi, le sere, a confrontarsi insieme sui problemi, per mettere a punto le strategie più efficaci ad personam. Perché buttare fuori dall’aula l’alunno indisciplinato è il provvedimento estremo e non la norma: l’obiettivo è coinvolgerlo, motivarlo. E la bocciatura è considerata un fallimento per i prof., una lesione insanabile per l’autostima del ragazzo, non un aiuto. Qui il “collegio docenti” è una realtà effettiva: luogo in cui il singolo docente non è lasciato solo con le difficoltà quotidiane, i dubbi, il senso di frustrazione; ma è in formazione continua grazie ad un confronto con gli altri, ad una ricerca collettiva di soluzioni.
    Ho conosciuto questa scuola domenica scorsa, 15 luglio, in occasione di una gita, con alcuni amici, all’Associazione Cometa presso Como. Ci tenevo a condividerla su questo blog, frequentato da insegnanti motivati, che ci credono, e da alunni assetati di risposte, di senso per la vita. Un angolo di Paradiso sulla Terra? No, se immaginiamo un posto idilliaco e perfetto, di alunni modello, educati e diligenti, dove non esistono problemi, dubbi, fatiche. Anche qui arrivano, come ovunque, ragazzi problematici, con difficoltà d’apprendimento, svogliati, demotivati, ribelli …; e gli insegnanti, anche qui, vanno in crisi, sperimentano quotidianamente la fatica, l’inadeguatezza, l’insuccesso. Angolo di Paradiso sì, se proviamo a guardarla dalla stessa prospettiva di chi vive e lavora in Cometa: dietro ai buoni propositi, agli sforzi, ai meriti dell’uomo c’è “lo zampino”, il progetto, l’opera di Dio.

    PS: spiegare che cos’è Cometa è complesso. La storia inizia nell’’86, quando un fratello, in piena crisi esistenziale, incontra un prete che gli dimostra che Dio esiste; poco dopo, decide di prendere in affido un bambino sieropositivo, facendosi aiutare dal fratello, medico (anche lui in crisi, scettico riguardo a matrimonio e famiglia!). L’affido termina, ma i due si ritrovano cambiati, più uniti. Vanno a vivere insieme, ristrutturandosi due porzioni di una vecchia casa padronale. Nel tempo, entrambe le famiglie si allargano, aggiungendo figli naturali e affidatari. Il loro esempio, la loro scelta di vita non passa inosservata, anzi attira come una calamita: nascono altri progetti. Ora Cometa è “una città nella città” (gli edifici, i giardini … sono donazioni), con cinque famiglie che vivono insieme – circa 50 persone tra genitori, figli naturali e affidatari che ogni sera si siedono alla stessa tavola -, altre famiglie in tutta Italia che si confrontano con loro sull’esperienza dell’affido, affidi diurni, doposcuola, una polisportiva che si è misurata con l’Atalanta, la scuola; in tutto circa 700-800 persone – tra figli, genitori, volontari, docenti … – che ogni giorno frequentano quegli spazi.

  26. susanna ha detto:

    L’idea che il carcere possa solo far peggiorare coloro che lo conoscono per la prima volta,traendo cattivo insegnamento dai “veterani” mi ha sempre tormentato,non ritenendo giusto un sistema che è solo punitivo e non educativo.La testimonianza diretta che esistono invece molte situazioni costruttive e tante persone disponibili per contribuire a realizzarle ridona SPERANZA.

  27. ragazza fortunata ha detto:

    Salve prof! Sono una ragazza di 20 anni e sono stata anch e io in carcere poco tempo fa!incontrare i carcerati è stata l’ emozione più dolce e misericordiosa che ci possa essere! Ho viesto una forte dolcezza in loro e una grande voglia di riscattarsi!è proprio uno di questi ragazzi ha avuto una conversione morale spirituale proprio attraverso la lettura! Comunque e bello condividere qualcosa con persone meno fortunate di noi anche se hanno commesso qualche reato perchè non in fondo non siamo nessuno per giudicare!

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