8 dicembre 2015

La misericordia non è solo per credenti

2504d9dc96d2172918215f6ea6ffffb4In occasione dell’inizio del Giubileo della Misericordia ho scritto due articoli. Nel primo, mi sono chiesto se la misericordia riguardi anche i non credenti e come influisca in ambito educativo; nel secondo, ho cercato di approfondire quale sia lo specifico della misericordia per i credenti.

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Un filosofo contemporaneo ha visto in Prometeo l’archetipo della società di oggi, composta da uomini stanchi, che hanno creato una vita che li incatena e divora continuamente. Il loro fegato ricresce ogni giorno, pronto per essere nuovamente distrutto dal meccanismo della prestazione. Per Prometeo non c’è misericordia: “La società del XXI secolo è una società della prestazione. I suoi stessi cittadini sono “soggetti di prestazione”. Sono imprenditori di se stessi.” (Byung-Chul Han, La società della stanchezza). La tecnica sostituisce ciò che è umano nell’uomo.

La stanchezza che caratterizza la società occidentale colpisce in modo particolare i giovani, ora disarmati di fronte ad una vita che chiede loro di essere oggetto di prestazioni e non soggetto di possibilità (adolescenza è l’irruzione di ciò che è propriamente umano, è l’assunzione di un destino: la necessità e l’entusiasmo di creare a partire da ciò che si è) e che si rifugiano nelle loro stanze come gli hikikomori o sono costretti a far regredire il loro corpo e il loro spirito a larva anoressica; ora armati a vuoto con l’unico scopo di distruggere (a maggior potenza creatrice corrisponde sempre maggiore estensione del caos), con violenza sul corpo altrui, o sul proprio, ferito per sapere di aver sangue e vita dentro di sé. Regressione fetale da un lato, esplosione kamikaze dall’altro: in entrambi i casi si mostra una forza sorprendente, di per sé creativa, che può impegnarsi a fini distruttivi, fino all’autodistruzione. L’assenza di misericordia trasforma l’amore di sé in amore della morte.

La prestazione è il contrario della misericordia, la capacità di interiorizzare, negli occhi dell’altro, la propria vita e accettarla per quello che è: un limite capace di superarsi, un limite capace di creare e di essere nuovo inizio, un inedito darsi. I giovani di oggi cercano, come ogni generazione, questa misericordia nella generazione precedente: la possibilità di riceversi così come sono. Ciò si impara primariamente in famiglia, la cui essenza è avere almeno un posto al mondo in cui si è accettati (se non si è frutto di un menu, e quindi oggetto di attesa di prestazione) e si accetta l’altro per come viene ed è e non per quello che può dare o fare. Un posto in cui qualcuno possa dire all’altro: “io darei la vita per te, come sei, adesso”. E quell’adesso è fondamentale, ed è misericordia.

Invece anche la famiglia, più fragile, diventa spesso luogo di prestazione: il figlio è caricato di tutte le attese dei genitori, che crollano se il figlio fallisce, perché la loro realizzazione non è primariamente nell’amore della coppia, ma nelle aspettative sul bambino (genitori che si ribellano per un cattivo voto del figlio, ma d’altronde la scuola è spesso ridotta a prestazione e voti, o si scannano durante le partite di calcio dei bambini). Se la felicità si identifica con una prestazione efficace, l’insuccesso è bandito. Invece la crescita e la maturità sono tessute di fallimenti, attraverso i quali il giovane impara che la realtà resiste ai suoi desideri di onnipotenza narcisistica e impara a stare al mondo, introducendovi la sua novità con la pazienza e il coraggio necessari. Questo è conquistare la maturità: interiorizzare il limite, trasformando il destino in destinazione. La società della prestazione spazza via la possibilità di fallire, perché non conosce misericordia, esilia la fragilità costitutiva dell’umano, generando soggetti spesso depressi e frustrati, perché non riescono ad essere quello che occhi senza misericordia si aspettano. Il doping diventa necessario: tanti professionisti hanno bisogno di drogarsi per essere produttivi, come si dopano le piante e gli animali perché forniscano materia nuova ogni giorno per gli scaffali.

Viene meno lo stupore paziente dell’essere “così” di cose e persone, viene meno la stessa consistenza di cose e persone che hanno bisogno di tempo per darsi a conoscere. “Rispetto” e “riguardo” dicono che per avere accesso alla realtà bisogna guardarla (-spectare -guardare) con un certo distacco, più e più volte (ri-), nel tempo, senza esigere il tutto-e-subito. Tolto il ri- della misericordia rimane solo lo spettacolo (spectare) dell’eterno presente, del multitasking, dello sguardo che pretende, della prestazione che affatica e divora, come l’aquila, il fegato del giovane Prometeo, portatore di fuoco.

Non c’è spazio perché il nostro io disarmato sia e cresca, nella pazienza delle stagioni. Il corpo si trasforma in protesi da migliorare con la chirurgia, l’amore si riduce a tecnica di seduzione e di piacere, la felicità si riduce a benessere, la salvezza a sicurezza, gli altri diventano app da smartphone. Riguardo e rispetto, cioè misericordia, sono merce rara, perché non dipendono dalla tecnica che tutto può, ma da un cuore capace di accogliere la realtà, prima di aver pensato di sfruttarla.

Un giovane non guardato e amato per ciò che è e non per ciò che dovrebbe dare e fare, si stanca della sua esistenza prima ancora di cominciare il compimento, che ne segna corpo e spirito. Non impara a conoscere e amare se stesso per quello che è, quindi non trova il coraggio per essere nuovo inizio (dare e fare come conseguenza dell’essere), agisce un copione per cui non ha talento, finendo con ribellarsi (o si chiude o esplode) al continuo fallimento a cui è paradossalmente costretto. La solitudine di Prometeo potrebbe guarire, la sua ferita rimarginarsi, se ricominciassimo, anche grazie al Giubileo (che non riguarda solo i credenti) a creare uno stile di vita basato, non sulla prestazione che genera stanchezza, ma su una vita attiva nutrita da uno sguardo che sappia farci sentire in pace per quello che siamo e non solo per quello che possiamo dare/fare. Se trovassimo questo sguardo, al fegato divorato ogni giorno dalla prestazione, potremmo sostituire un cuore ogni giorno rigenerato dalla misericordia.

La Stampa, 8 dicembre 2015

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Gli dei antichi erano tutto tranne che misericordiosi, non potevano esserlo, perché li aveva inventati il cuore ferito dell’uomo, tanto che Virgilio nell’esordio del suo poema chiede sbigottito: “Così grandi sono le ire nelle anime dei celesti?”. Non immaginava che Dio potesse essere misericordia incarnata in un cuore umano, eppure Cristo sarebbe nato pochi anni dopo. La misericordia è attributo sorprendente del Dio della Rivelazione, lontana da moralismo velleitario, irenismo sentimentale, in versione secolarizzata (filantropia). La misericordia divina, alla quale veniamo educati in modo speciale nell’anno giubilare, acquisendo gli stessi “pensieri-sentimenti” di Cristo, nel cuore del quale questa si è resa visibile e accessibile, ha due caratteri ben precisi, riassunti nella Dives in misericordia di San Giovanni Paolo II (in particolare nella nota 52): hesed e rahmim.

Il primo vocabolo indica la fedeltà di Dio alla sua alleanza, anche e soprattutto quando l’uomo non vi corrisponde: “si manifesta ciò che era al principio, amore che dona, amore più potente del tradimento, grazia più forte del peccato”. Da questa fedeltà a se stesso e alla sua creazione deriva la sua inesausta grazia, non ritira il dono: «Io agisco non per riguardo a voi, gente di Israele, ma per amore del mio nome santo» (Ez 36,22). Oggi più che mai c’è bisogno di questa fedeltà, data la diffusa mancanza di fedeltà al proprio essere (ci si ama solo se ci si riceve da Dio), che genera fughe da sé, la mancanza di fedeltà agli altri (ci si ama solo se si ama Dio negli altri), che genera tradimento e abbandono.

Mentre il primo ha un connotato maschile e paterno, il secondo vocabolo indica l’altro versante della misericordia divina, infatti rahmim, nella sua radice, denota l’amore della madre (rehem è il grembo materno) ed è la variante «femminile» della fedeltà a se stessi, espressa dalla hesed. Il legame che la madre ha con il bambino è sconosciuto al padre, proprio per la sua visceralità: è un amore gratuito, non frutto di merito, si dà e basta. Questo versante della misericordia “genera la bontà e la tenerezza, la pazienza e la comprensione, cioè la prontezza a perdonare”: «Si dimentica forse una donna del suo bambino? Anche se ci fosse una donna che si dimenticasse, io invece non ti dimenticherò mai» (Is 49,15). Questo amore è capace di accogliere, sostenere, gestare la vita dell’uomo, sempre e comunque: Dio non sa cosa sia l’aborto.

In queste due espressioni, di carattere antropomorfico, scorgiamo il volto paterno e materno di Dio: un amore che, a contatto con il male e, in particolare, con il peccato dell’uomo e del popolo, non si tira indietro. Sono le caratteristiche del padre in attesa del figlio prodigo: rimane padre, e quindi il ragazzo rimane figlio anche se è andato via, lo aspetta, gli va incontro, lo abbraccia, lo bacia, ne ascolta la confessione, gli restituisce la dignità originaria.

In questa doppia connotazione, resa visibile da Cristo, scorgiamo il volto della misericordia di Dio (“chi vede me vede il Padre”), ancora oggi. Tutto le volte che questa misericordia ci raggiunge abbiamo un tuffo al cuore, ci sentiamo a casa, come chi guarda il crocifisso ligneo di Torcello, sull’asse verticale del quale l’artista applicò dei pioli, indicando nel crocifisso la scala che porta al cielo, dopo essere stata dal cielo calata. Il Dio che crea è il medesimo che redime e, se la redenzione è il rendersi riconoscibile della verità, la misericordia diventa la redenzione che ci raggiunge personalmente, in Cristo. Come? Dove?

In un sacerdote che siede in confessionale e aspetta con la pazienza del Padre il ritorno del figlio, anche se non verrà nessuno. In una coppia sposata che rinnova ogni giorno la presenza di Cristo nella sua fedeltà al vincolo matrimoniale, costi quel che costi. In un laico che porta avanti la sua professione cercando di compierla con perfezione umana e al servizio degli altri. In un bagliore di bellezza naturale, come in questi giorni il tripudio di colori delle foglie autunnali, vestite a festa, benché debbano cadere, dimostrando che la morte è un passaggio verso l’alto e non un muro. In una donna che, in una giornata di pioggia in cui tutti vanno di fretta, si china a offrire tre mandarini dalla sua spesa ad una mendicante per terra, dicendole “questi li mangi lei, non li dia ai cattivi”. In un educatore che presta un libro che possa aiutare un ragazzo o cerca le parole giuste per parlargli. In una suora che nel silenzio della clausura ci ricorda che Dio solo basta. In una madre che, stanca, prepara con cura la cena per la sua famiglia. In un padre che, stanco, gioca con il figlio e rinuncia al riposo o porta un mazzo di rose alla moglie in un giorno in cui non ci sia nulla da celebrare. In un giovane che trova qualche minuto, ogni giorno, per parlare a tu per tu con il suo Dio. In una giovane che dedica qualche minuto del suo tempo alla solitudine di un malato. In una Messa affollata in giorno feriale, prima che il lavoro cominci. Sono tutte immagini “aggraziate”, cioè del dono di misericordia che Dio fa all’uomo nella vita di tutti i giorni, se l’uomo si lascia raggiungere da questa grazia, che ci rende “graziosi” (belli) e non “disgraziati” (brutti). Fedeltà paterna (che non nasconde il male delle azioni del figlio ma lo aiuta, anche ruvidamente, a prenderne consapevolezza) e accoglienza materna (che dimentica quel male se il figlio si apre al perdono) sono sistole e diastole del cuore di Dio, un cuore che avremo nella misura in cui chiederemo in dono quello di Cristo e di sua Madre. Questo è lo scopo del giubileo: rientrati nel cuore paterno-materno di Dio trasmetterne qualche battito a chi ci sta accanto.

Avvenire, 6 dicembre 2015

12 risposte a “La misericordia non è solo per credenti”

  1. Simone Gervasoni ha detto:

    “Un giovane non guardato e amato per ciò che è e non per ciò che dovrebbe dare e fare, si stanca della sua esistenza prima ancora di cominciare il compimento… Non impara a conoscere e amare se stesso per quello che è, quindi non trova il coraggio per essere nuovo inizio”

    Sono catechista di alcuni ragazzi di terza superiore, e posso dire che questa frase è assolutamente vera e riesco a capirla grazie all’incontro con questi ragazzi. Credo che quello di cui i ragazzi d’oggi hanno davvero bisogno sia incontrare persone che li amino per quello che sono, per come sono, al di là di quello che sanno fare, dei vestiti che indossano, dei tatoo che hanno o non hanno, del loro essere diversi e unici. Non mi piace vedere le due fazioni tra questi ragazzi, e cioè quelli che possono giudicare perchè più capaci in qualcosa e più “identici” alla massa da una parte, e quelli che non possono far altro che subire giudizi perchè diversi dai “tutti” per loro volontà o per forza di cose. Un cuore aperto che ama questi ragazzi per come sono è la forza che loro devono avere, per crescere, certi che la felicità e la soddisfazione più grnade sta nel poter dire di essere qualcuno, di essere amati. Dobbiamo far sognare questi ragazzi; ognuno deve sognare di poter diventare qualcosa di bello, di utile, di unico per gli altri.
    Mi aiutano in questa visione le parole di un poeta:
    “C’è pure chi educa, senza nascondere
    l’assurdo ch’è nel mondo, aperto ad ogni
    sviluppo ma cercando
    d’essere franco all’altro come a sé,
    sognando gli altri come ora non sono:
    ciascuno cresce solo se sognato.”
    Speriamo di essere sempre un trampolino di slancio per questi ragazzi!

    Grazie come sempre Alessandro delle tue belle parole!

  2. filomena ha detto:

    “Non basta amare i giovani, ma bisogna che sappiano di essere amati” (don Bosco) Per un giovane è difficile sentirsi amato da un adulto, per questo l’educatore deve sforzarsi di trovare la ‘chiave’ giusta per arrivare al cuore del ragazzo. In una società in cui l’educazione sembra essere l’ultimo pensiero di tutti, speriamo che questo anno giubilare aiuti tutti coloro che, come me, sono insegnanti/educatori, ad approfondire e riscoprire le ragioni della propria vocazione. Grazie perché anche le sue riflessioni sono di aiuto in questo cammino!

  3. Santi Rómoli ha detto:

    No te das una idea de lo inspiradoras que son estas palabras!! Te agradezco Alessandro por haber bajado el Jubileo un poco más a la realidad de todos los días

  4. Babuska ha detto:

    Prof duepuntozero, a me dispiace che spesso nel mondo conti solo la prestazione che dai e non quello che sei. Però è inevitabile. Infatti da studentessa conosco dei professori interessati alla persona che c’è in ogni singolo alunno, ma sono obbligati a dare voti sulle nostre prestazioni. Per questo dico che a livello personale e del singolo individuo questo è inevitabile. Se il mondo ti vede in vase a ciò che dai, sei costretto ad adattarsi, altrimenti non puoi vivere. Quindi non so che fare: se adattarmi o essere disadattata.

    • Prof 2.0 ha detto:

      Devi adattarti, senza pensare che quello sia un giudizio sulla persona, ma solo un giudizio su un “prodotto”. Non propongo un mondo senza valutazione, ma una priorità all’essere sul fare.

    • filomena ha detto:

      Babuska, se mi consenti una osservazione vorrei dirti che siamo chiamati a stare nel mondo, ma non a essere del mondo… Se è vero che il voto si da sulla prestazione è ancora più vero che il giudizio sulla persona è quello che conta di più. Vorrai forse negare la gioia infinita che si prova quando dopo un lungo lavoro e diverse insufficienze si riesce a prendere un 6 sudato di fatica? O quando un professore ti riempie di complimenti per le tue qualità personali e umane, anche se nella sua materia hai 5? Il segreto per stare a posto con se stessi, con la propria coscienza, è essere consapevoli di quello che si è e dimostrarlo tutti i giorni a testa alta, senza barare… La maggior parte delle persone guarda alla nostra prestazione? Non importa… c’è Qualcuno che ci ama per quello che siamo…io sono sicura che alla fine della nostra vita saremo giudicati sul nostro essere e non su quanti premi nobel abbiamo vinto… ed è questo quello che conta…
      scusa per l’intromissione!!!
      (comunque non è vero che tutti i professori danno un voto solo sulla prestazione…)

  5. Angelo Chiarle ha detto:

    Da prof. di Lettere a prof. di Lettere…
    Complimenti per tutti e due gli articoli: mi hanno davvero sorpreso, perché la riflessioni su stanchezza/prestazione relativa alla scuola sono perfette calza davvero a pennello. Da prof. dico: cambiare la valutazione scolastica, come viene concepita e come viene praticata; dipende solo da noi.
    Tante cose dobbiamo stare lì a guardare cosa combina chi siede al timone, ma questa dipende da soprattutto da noi.
    Bravo, comunque perché articoli come questi alzano davvero il livello della riflessione sui “fatti” della nostra scuola.

  6. Silvia ha detto:

    Bellissimo sottolineare l’aspetto materno e paterno della misericordia. Chi ha sperimentato la mancanza di uno dei due nella propria vita sa quanto siano complementari e come uno non possa supplire all’altra. Lo sguardo misericordioso di 2 sacerdoti, 2 padri, su di me, uno sguardo che ha visto il bene che io non vedevo (mi consideravo “nata sbagliata” e coglievo sempre il peggio della realtà) mi ha portato a desiderare lo stesso sguardo e insieme ad accettare la malattia e a decidere di curarla. Da padri a volte hanno usato anche toni decisi e mi hanno intimato l’obbedienza alle cure. Proprio la paternità mi ha fatto riscoprire l’aspetto materno che è in me, la voglia di proteggere, di accogliere gli altri e me stessa per come siamo e di perdonarli,di avere uno sguardo tenero, io che sono stata e a volte sono ancora un giudice severissimo di me stessa e degli altri.
    Un esercizio preziosissimo insegnatomi da uno di loro è stato l’esame di coscienza al contrario, alla fine della giornata oltre che guardare agli errori e ai peccati, ripensare a tutti i momenti, situazioni di bene e doni che Dio ci ha fatto in quel giorno.

  7. lucia ha detto:

    buongiorno Prof. devo affrontare con un gruppo di adulti il tema della misericordia partendo da un romanzo; suggerimenti ?
    grazie
    Lucia

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