9 maggio 2019

Intervista a tutto campo

Riporto l’articolo-intervista uscito sul Foglio a cura di Davide D’Alessandro il 7 maggio 2019

Se la scrittura diventa pro-creazione, vuol dire che avete davanti un libro di Alessandro D’Avenia. Lo sanno bene i tanti lettori che, partendo da Bianca come il latte, rossa come il sangue, passando per Cose che nessuno sa, Ciò che inferno non è, L’arte di essere fragili. Come Leopardi può salvarti la vita, sono approdati a Ogni storia è una storia d’amore, le trentasei storie che rappresentano «una commedia della libertà. L’uomo, in quanto mondo in miniatura, possiede tutte le componenti dell’universo: minerale, vegetale, animale, spirituale, ma non si esaurisce in nessuna di esse. È una natura non rinchiusa nelle leggi che governano tutti gli altri esseri, ma aperta a una sfida: un destino chiamato a farsi destinazione, una chiamata alla vita che necessita una risposta. La chiamata, indipendentemente da una visione immanente o trascendente, è un dato di fatto che ci posiziona nello spazio e nel tempo della storia, quindi ci dà un destino. La consapevolezza del destino è il dono che ci hanno fatto Atene, Roma e Gerusalemme, e che la modernità ha disattivato, sostituendo il “diventa ciò che sei” con il “diventa ciò che vuoi”, e poi, a illusione fallita, “diventa ciò che consumi”. Socrate diceva che senza conoscere noi stessi non potremo prenderci cura di noi stessi ed è esattamente quello che oggi ci accade: sappiamo tutto delle cose che usiamo ma niente di noi, siamo informatissimi ma la verità ci sfugge. Dobbiamo prima riparare il senso della posizione dell’uomo nel cosmo, come aveva capito perfettamente quel greco redivivo di Leopardi, che a quindici anni scrisse una storia dell’astronomia e cercò strenuamente di riattivare la dimensione eroica della vita senza deliri di onnipotenza, un destino da compiere con gli altri, come accade alla sua ginestra nel deserto. Il pastore errante dell’Asia si chiede: a che tante facelle, e io che sono? Sa di essere parte di un cosmo ma di essere l’unico a potere porre la domanda su se stesso. Questo è il miracolo umano, la sua dignità, come raccontava il grande e trascurato Pico della Mirandola, è proprio nella libertà di assumere ciò che gli è dato per portarlo a compimento. Nel farlo l’uomo scopre che la sua libertà non è assoluta ma relativa, cioè in relazione con qualcosa che la trascende: e così scopre la sua apertura verso Dio. Ogni storia, che ci piaccia o no, è una ricerca di Dio. Dante risponde al destino dell’esilio scrivendo la Commedia. Dostoevsvkij concepisce i suoi romanzi più grandi dopo i lavori forzati in Siberia. Solo chi ha il coraggio di farsi carico di tutto il suo destino, la croce che unisce la vita orizzontale e la vita verticale, risorge. Ogni storia è la storia di una resurrezione…».

Come la storia che si ripete ogni giorno, al Liceo privato “San Carlo” di Milano, dove il Professor D’Avenia si china a rifare, insieme agli studenti, il suo letto quotidiano, un letto fatto di sensibilità, di incertezze, di crescita, di speranza di futuro mentre la nebbia, dentro e intorno, avvolge palazzi e giovani creature umane. Mi sono sempre chiesto perché non abbia raccontato la storia di André Gorz e Dorine Keir, per me tra le più intense storie d’amore, ma la spiegazione di D’Avenia è convincente: «Amo Lettera a D. di Gorz che racconta quella storia in modo compiuto, è già un luogo poetico raggiunto, rimetterci le mani sarebbe fatale alla storia e a chi ci provasse. Le trentasei storie di donne che ho scelto, dalla moglie di Bach a quella di Foster Wallace passando per quella di Dostoevskij, avevano un versante incompiuto, una sfida creativa, una ricerca interiore, un dialogo da intrattenere con la figura femminile scelta, che mi avrebbe portato altrove e oltre. Con Gorz e Keir l’altrove e l’oltre erano già raggiunti, non li si poteva spingere più in là». Il Professore sa calarsi nei miti, sa che cos’ha Euridice che le altre non hanno, «che è indimenticabile. Dei miti non dobbiamo chiederci cosa significhino ma perché significhino, perché non li dimentichiamo, perché non ne possiamo fare a meno. Se avessi la risposta a questa domanda non avrei scritto un libro che ha come cornice il mito di Orfeo ed Euridice, sarebbe stato solo un gioco letterario che disattiva il mito, come vedo fare a molti che si ispirano a figure mitiche, ma “aggiornandole” ne spengono il potere euristico. Vico parlava di “universale fantastico” o di “metafisica fantasticata”: la sopravvivenza del mito consiste nel suo potere fondativo e conoscitivo, la sua capacità di catalizzare ciò che è disperso nella storia, di creare un campo magnetico che attira ciò che è disperso, il significato delle cose del mondo e consente di interrogarle. Se il mito fosse già la risposta, l’avremmo dimenticato, invece il mito è la domanda. Ed Euridice è la più bella domanda mai posta in tema d’amore, di destino, di violenza, di vita oltre la morte».

Si è servito di Leopardi per spiegare l’arte di essere fragili e i giovani hanno reagito «nel modo in cui hanno sempre reagito leggendo Leopardi, trovando un compagno di cammino che dona le parole per ciò che non riusciamo più ad abitare: la condizione umana, nel suo fecondo e creativo paradosso di natura aperta all’infinito ma senza gli strumenti per raggiungerlo da sola. Leggendo Leopardi io mi sono sempre sentito preso sul serio nelle mie domande più importanti, nella mia fragilità, che oggi viene nascosta, perché nella cultura della performance e del successo la fragilità è una sconfitta, una colpa, una vergogna (e non è un caso che proprio oggi più che mai pesi su Leopardi il bollino di “sfortunato”). La fragilità è invece la base per un arte di vivere integrale in cui nulla è accantonato, rimosso, nascosto, anzi diventa chiamata e sfida. E poi i ragazzi sono attentissimi alla bellezza: Leopardi ne fece la sua religione, perché era il baluardo posto contro la tentazione del nulla che aveva davanti agli occhi tutti i giorni. E un adolescente oscilla tra il nulla e il tutto e Leopardi li tiene insieme senza eliminare uno dei due poli. Voleva scrivere un’opera intitolata Lettera a un giovane del XX secolo per dirci in tempo che cosa avremmo perso. Scrivere L’arte di essere fragili è stato come compiere quel desiderio di Leopardi, e per questo il libro ha una struttura epistolare, è una risposta a quella lettera e un rilancio per il XXI secolo…».

Se avesse davanti una classe e dovesse spiegare L’infinito in poche righe, la reciterebbe a memoria «per tre o quattro volte, sottolineando qualche parola ad ogni esecuzione. Interpretare una poesia è impararla a memoria ed eseguirla, proprio come si fa con uno spartito. Interpretare è far vivere, non sostituire con altre parole. In un secondo momento chiederei: “Che cosa sono sempre cari, in questa poesia? Alla risposta “il colle e la siepe”, chiederei perché e poi, di domanda in domanda, scopriremmo che senza l’accettazione della condizione di limite non c’è alcuna ricerca e scoperta dell’infinito a cui aspiriamo. “Siete disposti ad avere sempre care le cose che vi sono capitate? Il vostro destino? Magari vi riguarda…”». Anche i Promessi Sposi li riguarda: «Spiegare viene dal latino ex-plicare, cioè togliere le pieghe (plica) dalle cose e portarle dalla com-plicazione (tante pieghe) alla sem-plicità (una solo piega, che non è banalità ma il nucleo di densità massima) e allora direi così: “Come faranno mai questi due ad amarsi dato che ne sono del tutto incapaci? Se mi seguite per trentotto capitoli saprete il segreto per amarsi contro ogni aspettativa e speranza. Magari vi riguarda…”. Ripeto “magari vi riguarda” perché “magari” viene dal greco makairos (beato) e indica un’aspirazione di felicità, e il verbo “riguardare” indica proprio quelle cose che ci guardano più e più volte, fino a che non accettiamo che ri-guardano proprio noi. I classici sempre ci ri-guardano».

Le sensazioni dei giovani davanti alle figure di Don Rodrigo e dell’Innominato sono particolari e fulminanti, poiché «dal primo vengono smascherati nella loro sete di giustizia: come Renzo si vorrebbero vendicare e come Renzo imparano, loro malgrado, a perdonare. Scoprono che la giustizia senza misericordia è una spirale che non ha mai fine. Dal secondo imparano a farsi qualche domanda sulla resa finale: quel senso di nausea e di oppressione che l’Innominato prova sulla sua vita loro lo conoscono bene. Anche loro vogliono sapere come ce ne si può liberare», mentre della Monaca di Monza colgono l’aspetto di adolescenziale prigionia nelle attese altrui e si sentono vicini alla sua trasgressione, ma ne disprezzano la mancanza di coraggio… che magari è loro».

Ma gli studenti, gli studenti che siamo stati e che sono i nostri figli, chiedono di avere un professore, un amico o un padre? Per D’Avenia «chiedono di avere un maestro, che è insieme le tre cose, purché con la parola amico non si intenda la poltiglia educativa in cui per avere la loro attenzione diventiamo come loro: senza asimmetria nel rapporto educativo tutto diventa menzognero. Basta andarsi a rileggere l’incontro di Dante con Brunetto Latini, in pochi versi c’è tutto quello che c’è da sapere su chi è un maestro. Educare è impegnarsi ad aiutare l’altro a trovare il suo destino e a tradurlo in destinazione. Se la relazione educativa fa questo è generativa, altrimenti diventa degenerativa perché non è impegnata nella vita dell’altro che inevitabilmente diverrà un peso. In questo la letteratura è un aiuto formidabile, perché, come diceva Todorov, è ciò che consente all’uomo di rispondere alla propria vocazione umana». I giovani, non per colpa loro guardano la politica «come una puntata di Zelig o una partita di calcio, perché è ridotta a teatro del potere, a scontro tribale. Non vi trovano quella chiamata alla costruzione della vita e del mondo che è l’essenza della politica. Il loro distacco è spirituale, non vi trovano qualcosa che semplifica la libera iniziativa dei cittadini o la incoraggia verso il bene comune. La vivono come tifoseria perché è a questo che l’abbiamo ridotta: basta guardare gli scambi social tra i politici. È sparito qualsiasi orizzonte di bene da realizzare con sacrificio per la polis. Si è rotto il rapporto tra pubblico e privato, che per i Greci o per la Firenze di Dante era in continuità organica, il cittadino è membro di un corpo, invece l’individuo moderno non lo è. Dopo Machiavelli, eliminata la verità di un bene superiore da realizzare che è ciò che genera la relazione sociale, la frattura tra politica ed etica è, fino a prova contraria, insanabile. Senza verità, diventa vero ciò che ha più potere, e quindi tutto si riduce a partigianeria, seduzione, forza». Il più grande limite della scuola italiana è «di non essere pensata per i ragazzi, ma per la propria autoreferenziale sopravvivenza. Ho espresso il mio pensiero più volte nella rubrica (Letti da rifare) che ho sul Corriere. Per me è sorprendente vedere la mobilitazione di piazza per il cambiamento climatico e la totale acquiescenza di fronte a un modo di fare scuola che invece di far fiorire i ragazzi li sterilizza. L’ecologia umana viene prima di quella del creato. Quando saliranno sui tetti della scuola come i protagonisti di Zero in condotta di Jean Vigo?», mentre la più grande risorsa è di presentare «un curriculum unico, sia nell’indirizzo tecnico-professionale sia in quello liceale. Abbiamo una cultura del lavoro e un umanesimo ricchissimi, come mostra il nostro patrimonio artistico e di artigianato, ma questa ricchezza resta sterile, perché non c’è il desiderio di trasmetterlo alle generazioni successive. Senza trasmissione si dà solo tradimento»

In tanti scrivono per lasciare qualcosa di sé, per convincere o semplicemente per il gusto di narrare, mentre D’Avenia scrive «perché assomiglio a un Dio che è Creatore e dà la vita. Non posso farne a meno, ciascuno lo fa nel suo ambito di lavoro: dare una forma nuova alle cose perché quella che hanno non mi sta bene per poi magari scoprire, attraverso la scrittura, che la vera forma è quella che ho trovato, anche se ad occhi distratti sembrava statisticamente irrilevante. La scrittura trova e apre il mondo nuovo. Scrivere è inizialmente una contro-creazione che, se è fedele alla verità intuita e va fino in fondo, diventa pro-creazione, liberazione della vita da luoghi comuni e menzogne e ampliamento dello spazio interiore in cui l’uomo può vivere, di ciò che è umano nell’uomo. Quindi scrivo per sapere come va a finire e comprendere che cosa ho trovato, per questo ho intitolato il mio secondo romanzo Cose che nessuno sa. E naturalmente scrivo per provare a fare una cosa bella, e una cosa bella è una gioia per sempre, parola di Keats». Fioriscono scuole di scrittura dove si esercitano ipotetici romanzieri, ma «per scrivere, diceva Pavese, non serve l’esperienza, bensì conta l’esperienza interiore, quindi è scuola di scrittura solo quella che “esercita” la vita interiore, l’intelletto d’amore o cuore intelligente verso le cose e le persone, dal cane del vicino alle costellazione del Cane, dalla composizione chimica delle lacrime al mistero dei buchi neri. In un tempo di grande dispersione dell’attenzione le scuole possono servire ad affinarla, ma non basta. Si impara a scrivere leggendo i maestri e rubando i loro segreti. Si impara a scrivere guardando ogni cosa e interrogandola. Si impara a scrivere spegnendo il cellulare e guardando i volti della gente per strada. Si impara a scrivere ponendo continuamente domande. Si impara a scrivere con una disciplina ferrea: Baudelaire ha scritto che l’ispirazione è la sorella del lavoro quotidiano. E poi bisogna pensare poco a se stessi, ai premi, al successo. A volte sembra che si insegni la scrittura a partire dalle aspettative di una ristretta cerchia di persone, quando l’unica regola della scrittura è la fedeltà a ciò che si è visto e intuito. Senza mai dimenticare che scrivere è un atto di amore anche verso il lettore che impegna anima, tempo e soldi per te. In molti scrittori di oggi dalla pagina esce una freddezza priva di eros, sia per i personaggi sia per il lettore. Io credo che il premio dei libri siano i lettori, il passaparola, la durata nel tempo… cioè i legami che la pagina crea. La scrittura è la pittura della verità, di cui possiamo creare solo dei simboli più o meno adeguati, perché siamo limitati e il talento non è democratico. È la parola a vivere in noi non noi a dominare la parola, quando la dominiamo non scriviamo ma ci facciamo belli con la scrittura. La parola, orale o scritta, ci precede e ci dà la voce. Ma se non è vera ha breve durata, per quanto possa essere ben “dipinta”. Scrivere non è compiacere, non si scrive per dire qualcosa, che è semplice e piatta comunicazione, ma si scrive perché si ha qualcosa da dire e che non possiamo dimenticare».

Se mi chiedono qual è il libro che avrei voluto scrivere, rispondo Sostiene Pereira di Tabucchi, mentre D’Avenia risponde I dialoghi con Leucò di Pavese per l’Italia e, fuori dall’Italia, La strada di McCarthy». Per Freud, psicoanalizzare, governare e insegnare sono mestieri impossibili. D’Avenia non ha provato i primi due, ma il terzo sì. E, giorno dopo giorno, glielo rende possibile «essere anche io sempre in crescita. Il maestro non è infallibile e compiuto, ma è colui che non smette mai di crescere e di lasciarsi educare dalla realtà e dalle relazioni. Se i ragazzi vedono questa apertura, che costa fatica e sconfitte, vedono il desiderio che rende vivi. E vogliono imitarlo. Chi insegna non indica le cose ma il desiderio che ha delle cose. Non determina il sapere, ma lo suscita, non lo causa, ma lo innesca. Solo così si crea una comunità di ricerca di senso, come facevano Socrate e Cristo, in cui io non sono contro i ragazzi ma con i ragazzi verso un obiettivo che ci supera e per questo tiene salda la relazione. Sono un maestro d’orchestra a servizio della musica che altri hanno scritto. Ed ho bisogno di ogni strumento e loro di essere guidati. Nella vita il letto più importante da rifare è tenere aperta l’officina dell’amore 24 ore su 24. Si guadagna tempo solo quando si cresce e si cresce solo quando si ama. Amare è l’unico modo di avere la vita eterna, cioè una vita sempre nuova, già adesso».

Ha cercato di raccontare l’insegnamento che ha lasciato don Pino Puglisi nel romanzo più inatteso, perché «non avevo mai pensato di scrivere quella storia, Ciò che inferno non è. Se a 17 anni uccidono l’insegnante di religione della tua scuola, la tua vita cambia e l’uomo che sono oggi lo devo a quell’evento. Da lui ho imparato che finché c’è speranza c’è vita e non il contrario. E la speranza sono i bambini e i ragazzi, purché ci si metta al loro servizio, costi quel che costi. Proprio per questo la mafia lo ammazzò, perché minava alla base il consenso di cui il potere ha bisogno, ma lui lasciava cadere nel cuore dei ragazzi il seme della libertà, che all’inizio è piccolissimo ma una volta che ha messo radici non lo puoi più estirpare».

Palermo non è soltanto la città dov’è nato, ma è qualcosa di più: «Quello stesso libro è diviso in due parti proprio a partire da Palermo. È il respiro della storia, sistole e diastole del cuore umano: Tutto-porto (pan ormus dal greco vuol dire questo), un grande abbraccio per chi arriva da fuori e ne tocca la dolce e aperta costa, ma allo stesso tempo è Spasimo (da Santa Maria dello Spasimo), la Chiesa a cielo aperto proprio vicino al mare, il sentimento di chi abita in quella città e sente un insopprimibile desiderio di cercare altrove ciò che gli serve per vivere. Un paradosso del desiderio umano: tornare e partire, il paradosso al centro della vita, un porto di cui non sappiamo se è ritorno o partenza, come l’Itaca dell’Ulisse dantesco. Palermo è la mia città interiore, una città invisibile, tutta fatta e tutta da fare, come quelle del libro di Calvino dall’ultima pagina del quale ho liberamente tratto il titolo del libro». Dopo Ogni storia è una storia d’amore, la prossima storia sarà una storia di luce: «Ho idee per i prossimi dieci libri, li coltivo contemporaneamente, ma quello che adesso spinge di più per venire alla luce sarà proprio una storia della luce, la prima cosa che Dio creò». E la scrittura continua a essere pro-creazione. O è pro-creazione o non è, o scrivi perché assomigli a Dio o non scrivi. E D’Avenia scrive. E, scrivendo, dona vita.

7 risposte a “Intervista a tutto campo”

  1. Allebasi ha detto:

    La vita è un grande dono. Il più grande dono che abbiamo, anche se a volte non ce ne rendiamo conto.
    Alessandro, attraverso i suoi libri, articoli, parole, azioni, ci ricorda sempre che la vita è un dono che dobbiamo ricevere con gratitudine, prima di donarlo. Non possiamo donare la nostra vita se prima non abbiamo imparato ad accettarla.
    Grazie, Ale D’Avenia, perché ci ricorda sempre che la vita è preziosa e non dobbiamo sprecarla. A volte noi bisticciamo con la vita, non accettiamo le sofferenze che essa, talvolta, ci presenta. Pensiamo, erroneamente, che essa non sempre abbia un valore, o meglio, un valore intrinseco e se essa non ci gratifica, siamo pronti a sminuirla e a buttarci via.
    Invece la vita è sempre un dono, anche quando non ci piace e vorremmo rispedirla al mittente.

    • Nicola Lombardi ha detto:

      Egr. Alessandro D’Avenia
      Io come insegnante ho fallito. Spero che Lei possa fare un po’ di quello che non sono riuscito. Fra le cose pazze che ho fatto leggere Ciò che inferno non è in 3 GG. e L’arte di essere fragili in 3 AA. Ricordo solo che io ero sulla barricata. E mi sono sfracellato. Ma nonostante questo a volte ci torno. Mi ha colpito la frase sulle transizioni precipitose che sono transizioni apparenti, non reali (D’Avenia 2018, p. 186 Dialogo di Tristano e di un amico -G. Leopardi Operette Morali- 1832). E’ quello che è successo a me. Saluti Nicola Lombardi Lucca

      • Prof 2.0 ha detto:

        Caro Nicola, mi spiace sia andata così. Però credo che chi fa le cose con impegno e competenza, anche se non ottiene i risultati sperati, non fallisce mai…

  2. Felicetta ha detto:

    Vero : Nella vita il letto più importante da rifare è tenere aperta l’officina dell’amore 24 ore su 24.”
    Grazie professore per il bellissimo contenuto dell’articolo che come sempre mi apre ampi spazi di ricerca interiore!

  3. Pepita Jimenez ha detto:

    Buonasera Alex!
    Sono contenta di sapere che il 9 Settembre darà il via a una nuova rubrica : “Ultimo banco”.
    Sarà interessante, meravigliosa, strepitosa come la precedente.
    Sono sincera: un po’ mi mancherà questa rubrica dei “Letti da rifare”, ma trovo più che giusto percorrere sentieri inediti ed esplorare nuovi “continenti” del sapere e della realtà quotidiana .
    Io non vedo l’ora?di leggere la nuova rubrica e di viverla ?!
    In più… sono curiosa ?!!!
    A Lunedì 9 Settembre!!!

  4. Fátima Rodrīguez ha detto:

    He quedado maravillada con este hermoso texto lleno de vida.
    Muchas gracias.
    Desde muy lejos, Uruguay, le saludo,

    Fatima

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