17 gennaio 2023

Ultimo banco 145. Un calcio alla morte

Gianluca Vialli è stato, nella mia adolescenza, un eroe di quello strano sport contro-evoluzionistico per cui l’abilità non dipende dalla mano, che ha reso l’uomo uomo, ma da un arto molto meno preciso: il piede (pedestre è un’offesa: “é fatto con i piedi”). Nel calcio anche il gesto più bello “è fatto con i piedi”, la mano è vietata (solo Maradona l’ha resa, furbescamente, tocco divino): arcaica nostalgia di una danza primordiale che incanta l’altro per trafiggerlo nel suo territorio sacro (la rete) con il “colpo” che arriva quando non lo aspetti o da chi non lo aspetti. Per questo sport pedestre il mondo impazzisce come un tempo i popoli incitavano gli eroi su un “campo” di battaglia: attacco, difesa, ali, assedio, manovra, bordata, barriera, parata… Il calcio, se funziona, è guerra sublimata (i pacifici si scatenano, gli sconosciuti si abbracciano): tribalismo in purezza. Per questo la morte di un suo “eroe” mi ha ricordato quando Ulisse, nel suo viaggio di ritorno, fa tappa tra i morti e incontra Achille, che aveva preferito morire giovane ma glorioso nella guerra di Troia piuttosto che vecchio ma ignoto a tutti. Ulisse lo elogia ma Achille risponde che preferirebbe essere l’ultimo servo in vita piuttosto che il re nell’aldilà. Il guerriero famoso per le sue gesta è in crisi: che se ne fa della gloria da morto? Ma allora: per che cosa vale la pena vivere? Chi è veramente un eroe?

Eroe originariamente significava semplicemente “uomo”, ma per essere pienamente uomini o donne ci vuole la qualità che si è saldata alla parola eroe: il coraggio. Quello di rispondere di noi stessi, intervenendo nella realtà grazie a una forza interiore che ci abita (desiderio) e ci spinge a essere un “mai prima d’ora e mai più dopo”. Questo rende ogni persona eroe/eroina: insostituibile. Una vita compiuta è quindi una vita che prova a rispondere a una chiamata: che cosa puoi essere e fare solo tu? Gli antichi lo chiamavano destino, ciò che il fato decide per te, io preferisco destinazione: una libera risposta a ciò che la vita offre.

La chiamata di ognuno, se solo ne osservassimo lo stato cristallino, brilla già nell’infanzia. Gianluca Vialli da bambino giocava tutto il giorno a pallone nella casa di campagna a Grumello, ma non gli bastava e andò a piazzarsi, sempre e solo in attacco, sul campetto dell’oratorio di Cristo Re a Cremona. È la storia di molti bambini, ma la differenza sta nel fatto che, quella chiamata, venne presa sul serio da qualcuno: così un destino diventa destinazione. Entra in scena Franco Cistriani, professore di Italiano che si divertiva ad allenare i giovanissimi del Pizzighettone, squadra in provincia di Cremona. Quando l’insegnante-allenatore vide il ragazzino, lo arruolò subito, lo fece migliorare e lo seguì fino a che non fu notato dalla Cremonese… il resto è storia. Questa fase della vita del calciatore è, come per tutti, il momento in cui la chiamata si manifesta con due tratti essenziali: il pezzo di mondo verso cui ci chiama l’energia del desiderio (le cose in cui “amar fare” e “saper fare” coincidono) e il maestro che ci mette in condizioni di rispondere alla chiamata.

La vita, con quello che ci dà, pone la domanda, la riposta siamo noi stessi, il maestro aiuta a rispondere: non risponde al posto nostro (cosa che a volte i genitori fanno) e non dà risposte a domande mai poste (cosa che a volte accade a scuola). A noi adulti capita, prima ancora di aver scoperto il pezzo di mondo che li chiama, di imporre a bambini e ragazzi occupazioni, prestazioni, standard, carriere, aspettative, che spengono l’energia speciale e specifica di ciascuno o la dirottano fuori da loro stessi, dalla loro chiamata.

Gianluca Vialli amava giocare e sapeva farlo, ma senza Franco Cistriani, che lui stesso ha definito “il mio primo maestro”, questa storia non la potremmo raccontare, almeno non così. Ma non basta. Quest’uomo non solo sapeva e amava fare il suo lavoro, era altresì capace di stringere e coltivare, anche in malattia, relazioni buone (famiglia e amici). Benché i medici lo frenassero, non rinunciava a trovarsi con gli amici e a lavorare fino a che ha potuto. Amore per il nostro da fare quotidiano e relazioni buone: due elementi che definiscono una vita riuscita. Come tutti, avrà avuto difetti, fragilità, cadute, ma ciò che resta è il “senso” dato dalla vita e alla vita, “senso” vuol dire infatti sia “significato” sia “destinazione”.

Eraclito, filosofo antico, diceva che la disposizione a diventare ciò che siamo chiamati a essere (ethos, il carattere che in greco significa anche casa) è il divino (daimon, tradotto anche con destino) in noi: questa originaria e originale disposizione nasce con noi e chiede di compiersi, ma noi possiamo tradirla (per mancanza di conoscenza e/o accettazione di chi siamo) o essere spinti a tradirla (abbracciando illusioni di destino proposte dall’esterno). Quando invece la vita diventa la risposta alla chiamata autentica, la morte non è una sconfitta ma, come nel calcio, la fine della partita. Il tempo della partita finisce (di-partita) per tutti, ma il punto è se il fischio finale, a prescindere dal risultato, ci ha sorpresi “in azione”, l’azione di rispondere come solo noi potevamo fare. In questi ultimi tempi sono morti tanti “eroi”, ma è facile distinguere chi era solo “famoso” e chi invece è stato “uomo”, cioè “divino”: intorno a lui/lei è fiorita la vita e non solo l’ego.

Corriere della Sera, 16 gennaio 2023 – Link all’articolo e ai precedenti

3 risposte a “Ultimo banco 145. Un calcio alla morte”

  1. Luigi Brambilla ha detto:

    Buonasera Prof. Alessandro
    Nelle nostre vite siamo tutti eroi. Con coraggio combattiamo le partite che la vita ci assegna.
    Viviamo come se fossimo immortali, sperando sempre nella Pasqua.
    Come scrive il Saggio Andrea Maietti da Lodi:
    Da “I Tacchini di zio Athos”:
    Nella storia “Addio Vigilon”:
    “Quando ho scambiato le ultime parole con Sandro el vigilon.Sapeva di essere impegnato all’ultimo sprint.”Son rivad a pensala insi-mi ha detto-:bisugna no cerca’ da taca’ dì a la vita,bisugna met la vita nei di'”.
    Traduco:Non aggiungiamo giorni vuoti alla vita ma la nostra vita va resa migliore.

    Cordiali saluti
    Luigi Brambilla

  2. Nicola Baroni ha detto:

    Caro prof. D’Avenia,
    la seguo da anni e le scrivo per ringraziarla sentitamente per le riflessioni che offre oltre che per rendere omaggio alla di-partita di mia madre avvenuta pochi giorni fa.

    Una delle sue sfumature, per chi la conosceva, consisteva nella sua grande fragilità.
    Al tempo stesso era anche la persona che nutriva in me una fiducia senza condizioni e che, a modo suo, mi valorizzava.
    Ecco perché ritengo sia stata la mia prima Maestra: se la sua depressione mi ha spinto fin da adolescente a pormi domande (come è possibile? quale è il senso?), la sua stima in me mi ha incoraggiato (letteralmente ‘dar cuore’) a cercare risposte.
    E se intimamente cerchiamo risposte esistenziali ed impariamo ad ascoltare e osservare esse arrivano.
    A questo punto, per quello che è la mia esperienza, occorre poi, pur ammettendo cadute (e chi non sbaglia?) essere coerenti, ovvero declinare nel comportamento quotidiano il contenuto di tali risposte strutturali: se questo accade il livello coscienziale delle domande si innalza e con esse le relative risposte.
    Questo processo continuo permette di affinare passo dopo passo l’immagine di quello che siamo chiamati ad essere.

    La ringrazio quindi ancora una volta per essere parte del mio cammino, e soprattutto per stimolare e incoraggiare tanti adolescenti nel loro peculiare percorso di ricerca della loro destinazione, unica per ciascuno di loro.

    Un caro saluto

    Nicola

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