Inter-vita (non intervista) con Rkomi
«La morale, baby, è che a volte devi trovare il tuo nome, e altre volte è il tuo nome a trovare te». Lo dice Future all’amico Rabbit, Eminem in persona, protagonista di uno dei film più belli sulla cultura rap: 8 Mile, una strada malfamata di Detroit. La battuta vale anche per Mirko Manuele Martorana, nato e cresciuto nel quartiere milanese di Calvairate dove la strada era il suo campo di calcio.
Ruolo?
«Centrocampo, anche centravanti, ma poi sono tornato indietro, anche terzino».
«Con il piede molto preciso, da punizione nel sette».
Che altro?
«Scorrazzavo in bici e poi in moto, preferivo la strada ai pochi metri della casa popolare dove abitavo con mia madre e mio fratello. Mio padre se n’è andato che avevo meno di un anno…».
Per questo il nome te lo sei dovuto trovare… ma è anche vero che il nome ha trovato te: Rkomi? Uno scioglilingua…
«Da ragazzino volevo fare graffiti e mi esercitavo su un quaderno dove “taggavo” a ripetizione la mia firma: prima Komir, con le sillabe di Mirko invertite, poi R’komi, infine Rkomi».
Sembra un nome di battaglia…
«Ho dovuto lottare per avere ogni cosa».
La mattina io mi alzo e vado a scuola o scrivo. Tu che fai?
«Mi alzo presto e pratico Muay Thai. Mi aiuta a concentrarmi».
Essendo amici questa per me non è un’intervista ma un’inter-vita, un pezzo di strada insieme. E così scopro che si tratta della boxe thailandese, disciplina con forme rituali ed esercizi di respirazione importanti quanto il combattimento, prima del quale il maestro benedice l’allievo: «da uomo diventi guerriero». Così è il trentunenne che ho di fronte, un uomo vulnerabile che diventa un guerriero con la musica. Assomiglia al primo Rocky, tanto duro quanto gentile. Innamorato sin da bambino delle parole del rap che ascoltava nelle strade dove si faceva freestyle o nelle cuffie al parco, per ore. Il Muay Thai si chiama anche «arte delle otto armi» perché si usano mani, piedi, gomiti e ginocchia, come fa Rkomi nel disco più recente, Decrescendo, una lotta a tutto corpo con la vita che non basta mai, con un urlo (che apre il disco) ora di rabbia, ora di dolore, ora di passione, ora di liberazione… come dice un verso di 10 secondi: «Se tutto nasce che urla, urlo un po’ anche io». Mi spiega un genere musicale molto più variegato e interessante di quello che si crede, aiutandomi a capire meglio l’anima dei miei studenti. A Sanremo, con Il ritmo delle cose Mirko-Rkomi le ha cantate al nostro vuoto affannosamente riempito di nulla, il mondo e gli altri trasformati in un usa e getta. Come le rane bollite di Chomsky viviamo in «un inferno a fuoco lento».
Mi spieghi questo «decrescendo»?
«Decrescere è andare in profondità per liberarsi dal troppo che soffoca e per tornare all’essenziale, non tradirsi, come quando eravamo bambini. La copertina del disco è una foto salvata da un recente trasloco di mia madre: ho 5 anni e sono con i compagni della materna, tutti sorridono tranne me, e non perché fossi un bambino triste, ma era perfetta per dire: “La felicità non può essere in posa”».
Mi mostra la copertina dei 18 brani che mescolano il rap più serrato ad altri generi, spesso in compagnia dei «fratelli» della scena (Tedua, Ernia, Nayt, Lazza, Bresh, Izi), brani in cui de-crescere diventa de-cantare, cantare l’essenziale, anche solo la verità che c’è in un dolore o in una gioia.
Mi ricordi la poesia «Scavare» del Nobel Seamus Heaney, che al posto della vanga del padre, del nonno e del bisnonno, in mano si era trovato una penna e si chiedeva che cosa farci: «Scaverò con questa».
«È quello che cerco di fare. Poi mandamela».
Ma se tu avessi un figlio, che cosa gli faresti ascoltare?
«Partirei dalla classica, perché tutta la musica è stata scritta da tre o quattro autori fondamentali, e non possiamo inventarci più nulla. Gira e rigira i problemi dell’uomo da migliaia di anni sono sempre gli stessi e qualcuno ha già risposto ma magari non abbiamo saputo ascoltare. Poi un po’ di industrial rock per smuovere l’anima, come i Viagra boys. E poi Lou Reed per la sua totale assenza di paura, forse troppa, perché io reputo fondamentale averne».
Di cosa?
«Di non rendere abbastanza giustizia alle persone che hanno fatto capolavori. A questa grandezza».
Se dovessi dedicargli una canzone di «Decrescendo» quale sceglieresti?
«Così piccoli, che è una lettera scritta al bambino di quella foto in copertina».
In questo disco ci sono i «fratelli», gli amici con cui hai condiviso l’adolescenza o la musica, quelli che riconosci perché, come dici in «Orfani» (nome perfetto per tanti ragazzi), sentono anche loro di «non appartenere». Che qualità ha un «fratello»?
«L’onestà. Ti dice le cose come stanno, forse perché è la qualità a cui ambisco di più per me stesso».
Se dovessi definirti in tre aggettivi ?
«Nessuno, cambio sempre, le definizioni mi stanno strette».
Tu sei il tipico che a scuola non stava mai fermo…
«E infatti mi hanno mandato via dall’alberghiero… Mi sono dedicato a mille lavori dal muratore alla ristorazione, che pensavo sarebbe stato il mio futuro, ma alla fine dei turni andavo a fare musica…».
C’è chi si muove perché è in fuga da qualcosa e chi perché va verso qualcosa. Tu?
«Ti rubo la spiegazione che dai al filo di Arianna: andare dentro il labirinto, affrontare i mostri, ma sapere che puoi uscire quando vuoi perché c’è qualcuno che tiene l’altro capo, che ti aspetta fuori».
Hai mai incontrato Dio?
«No, ma delle voci che mi hanno portato a fare le cose che ho fatto».
Ti capita di pregare?
«Nella respirazione dello sport che pratico c’è una forma di preghiera, ma forse il mio modo di pregare è scrivere musica».
La tua musica ha due movimenti della preghiera: desiderio di qualcosa che è oltre e liberazione dalla zavorra che impedisce di volare…
«Bello parlare con te, mi capisco meglio».
Anche io, sai nell’epoca in cui puoi chiedere tutto all’IA ci salverà l’amicizia. Il tuo fumetto preferito?
«Non ho letto nulla sino ai 18, ho cominciato con L’alchimista. Ammiravo mio cugino che faceva il classico, leggeva tanto ed era bravissimo con le parole, da lui ho imparato il rap e con lui ho cominciato a farlo. Ora ho sempre un libro, adesso Il selvaggio di Guillermo Arriaga, quasi mille pagine».
Un titolo eloquente… Il tuo poeta preferito?
«Mi piacciono i maledetti, perché in realtà sono benedetti. Ora direi Pavese».
Il dolore più grande della tua vita?
(Si copre gli occhi). «Su questa metti i puntini di sospensione».
Che cosa vorresti si scrivesse sulla tua lapide?
«Quello che mi hai detto tu: date di morte e nascita invertite, per dire che siamo qui per nascere».
Tu dici decrescere…
«E poi io forse non ci vorrei neanche il nome».
Hai un motto?
«Come per le definizioni, non amo averne. Mi piacciono però i riti, che per me sono canzoni».
Per esempio?
«Quando parcheggio nel palazzetto per un mio concerto ascolto Blue Notesdel rapper americano Meek Mill».
Poi me la ascolto. Perché chiami le tue canzoni «episodi»?
«Nascono da qualcosa di piccolo, un vissuto mio o di qualcuno, che cerco di approfondire, di immortalare per non perderlo, fino a perdermici io. Tutto mi parla: persone, libri, mezzi pubblici, musica… Scrivo una frase, registro un ritmo, a poco a poco le cose cominciano a collegarsi in alcune caselle, allora riunisco le persone con cui creo. Ci accampiamo in una casa che trasformiamo in uno studio, e passiamo ore a inseguire questa cosa che a un certo punto accade. Solo dopo averla fatta capisco ciò che stavo cercando».
Perché mi dici che con questo disco si è chiuso un libro e non un capitolo?
«È più di un capitolo. Non vedo l’ora di tornare in studio per andare oltre. Non amo riascoltarmi, devo proseguire».
E allora il mio capitolo preferito, insieme a «Orfani» e «Oh Giò», è «10 secondi» soprattutto quando dici «Vorrei ascoltare per sempre questi 10 secondi di niente/ dove feroce l’abisso scompare/ piano piano torna trasparente». L’essenziale può stare in 10 secondi?
«Sì, se quei 10 secondi sono l’attimo in cui trovi tutto, o quello in cui elimini il niente che credevi fosse tutto. Allora sei libero, centrato, non devi più muoverti, cercare altro».
Qual è la cosa più bella che hai fatto nella vita?
«La vita che ho fatto. Tutto è servito. E ora quello che voglio è fare un amore bello, pieno, carnale, quell’abbraccio che tutti cerchiamo e sempre ci manca».
David Foster Wallace in «Infinite Jest» dice che noi siamo esattamente e completamente ciò per cui saremmo disposti a morire senza pensarci due volte. Per te che cosa è?
«Di sicuro le persone a cui voglio bene. E poi darei tutto per riuscire a trovare realmente quella cosa che sto cercando. Che cos’è tutto questo?».
Lo dice guardandosi intorno, come se la cosa che cerca fosse lì da qualche parte: siamo in cima a un palazzone da cui si abbraccia tutta Milano. Allungando la mano sembra di poter toccare ogni via e vita, dal centro alla periferia, migliaia di case, palazzi, finestre…
Se avessi un super-potere?
«Volare».
Un po’ ce l’hai. In una di quelle stanze c’è qualcuno che ora sta ascoltando una tua canzone… Che cosa vorresti gli accadesse?
«Che riesca a stare lì dov’è, abbracciando quello che è. Che riesca a stare. Che riesca… a stare».
Che cosa scrivere? Sono Federica Salvan, esploratrice, indagatrice di queste sonorità, vocalità nuove, frequenti che cantano in modo politematico, partendo dall’anima. Come insegnate, educatrice, ricercatrice in Filosofia, chiedo, non mi arresto nelle pieghe dell’anima e, soprattutto, scrivo per narrare, senza cessazione perché tutto si presta a narrazione come il Filo-sofare dii Arianna. Grazie e buon meditare, Federica