1 aprile 2015

Trasformare il giallo in epica: Airbus A320

62d133a7cdbe52686487bc5d6a34f604Quando devo prendere un treno arrivo in anticipo per girare nella libreria della stazione. Lo spazio dedicato ai generi letterari mi chiarisce il genere di umanità che siamo al momento. La poesia è sempre confinata in angoli poco visibili: la poesia è sempre all’angolo, sugli scaffali, come nella vita. Ad accogliermi invece c’è un ampio bancone dedicato alle novità della giallistica. Il genere svela che genere di percezione abbiamo del mondo e della vita: un giallo. Qualcuno fa del male a qualcun altro: non se ne conosce il senso, né l’autore. Qualcuno si occupa di scoprire la verità, che certamente c’è ma non è raggiungibile con certezza. Come ci conferma la cronaca dell’Airbus precipitato sulle Alpi francesi, disseminando pezzi di lamiera come una pioggia sterile sulle rocce imperforabili della morte e brani di 150 corpi minacciati dalla fame dei lupi. Il giallo è: perché un quasi trentenne ha portato l’aereo a schiantarsi dall’aria rarefatta dei 38mila piedi al duro suolo che dall’aldiqua immette nell’aldilà, con respiro calmo e la dolcezza di un atterraggio, tanto da non insospettire i passeggeri sin quasi al momento dell’impatto. Ma l’impatto con la morte, paradossalmente e come in ogni giallo, riguarda, più che i morti, chi resta.

Leggeremo la cronaca delle prossime ore come si legge un giallo e, trovare il colpevole e le sue ragioni, anche se lenirà la nostra sete di senso, ci graverà di una più inconfessabile verità: la vita è un giallo senza soluzione, in cui spesso destino e caso sembrano coincidere. Abbiamo bisogno di imporre un senso per poter rimuovere la paura che incute il Grande Colpevole dei gialli: la Morte. Narrativamente ce lo ha mostrato uno scrittore come F.Dürrenmatt nel suo La Promessa, sintomaticamente sottotitolato: “Un requiem per il romanzo giallo”, nel quale la promessa di smascherare il colpevole porta nel caos l’investigatore, ad un passo dal risolvere il caso, proprio a causa del caso (ambiguità scoraggiante della parola: ricerca e casualità). La razionalità non prevale. Il giallo è disinnescato, perché la vita lo disinnesca: “La nostra ragione rischiara il mondo non più dello stretto necessario. Nel bagliore incerto che regna ai suoi confini si insedia tutto ciò che è paradossale”. Ci illudiamo e finiamo con l’esagerare quando tentiamo “di imporre una visione perfettamente razionale delle cose, giacché proprio la sua perfezione assoluta costituisce la sua menzogna mortale e un segno della peggiore cecità”. Il Grande Colpevole, la Morte, non si può sorprendere con le mani nel sacco, perché compie solo delitti perfetti, per questo non la sopportiamo e la rimuoviamo a tutti i costi. Ci illudiamo di eluderla con la Moda, che però – come ci ha rivelato Leopardi – è la sorella Bianca, elegante e furba, della Morte, perché ci consegna, seducendoci, alla Nera Signora. La Moda di sopravvivere con la chirurgia o la tecnologia, la Moda di sopravvivere con il successo a qualsiasi costo (Lubitz ha detto alla ex fidanzata che un giorno avrebbe fatto qualcosa per cui il suo nome sarebbe stato ricordato da tutti). La Moda sostituisce il vivere coraggioso, creativo, originale con il mortale conformismo dell’insignificanza.

A questo proposito tra i 150 morti quelli che ci risvegliano di più sono i sedici ragazzi di una scuola, in viaggio per imparare lo spagnolo: erano stati sorteggiati tra quaranta candidati. Vedo i loro volti illuminarsi al sentire pronunciare il proprio nome durante la lotteria: un tassello verso l’esplorazione del mondo, un gradino verso la realizzazione di un sogno, di un progetto di futuro. Un richiamo ad andare al di là, che diventa invece un aldilà definitivo. Vedo la delusione degli altri ventiquattro: una sfortunata battuta d’arresto sul cammino della conoscenza, del gioco esaltante e duro della vita. Un genitore intervistato si addossava tragicamente la colpa, pentendosi di aver spinto la figlia a studiare lo spagnolo, di averle raccontato che il mondo va navigato, esplorato, conosciuto: studiato. Eppure è questo che dobbiamo continuare a fare: rispettare il nostro poter essere sempre al di là di noi stessi e delle circostanze, superando i dati puramente biologici del nostro esserci, ché questo è essere uomini: andare al di là (e nell’aldilà). Con la perdita di sicurezza che questo comporta. Chi volerebbe se non si fidasse delle ponderabili leggi della fisica e delle imponderabili leggi dell’umano?

Il giallo non ha soluzione, perché la realtà è anche mistero. E, proprio quando ci mostra il suo volto di Medusa che pietrifica, siamo chiamati a rispondere da uomini e donne coraggiosi, che non si nascondono alla morte, ma che imparano a vivere a cospetto della morte, superando l’angoscia dell’esserci qui e ora e non più un giorno, ma alimentando proprio per questa limitatezza quello che caratterizza ogni senso del limite: l’attesa di un compimento, che nell’aldiqua è il motore per innescare ogni azione creativa. Vivere al cospetto della morte significa trasformare ogni cosa, buona o cattiva che sia, in risorsa per trascendere la nostra salutare incompiutezza: senza siepe non c’è infinito. Lo aveva intuito tre millenni fa Gilgamesh, protagonista di un epos di ricerca della vita eterna, proprio a partire dalla morte del suo migliore amico: «“Come posso riposare, come posso avere pace? La disperazione è nel mio cuore. Ciò che è mio fratello ora, lo sarò io quando sarò morto. Poiché ho paura della morte farò del mio meglio per trovare colui che chiamano il Lontano: egli infatti è entrato nel consesso degli dei”. Fu così che Gilgamesh attraversò le lande alla ricerca di colui che gli dei avevano portato a vivere nel giardino del Sole, a lui solo fra gli uomini avevano dato la vita eterna».

Proprio perché un aereo si è schiantato contro la pietra della morte tocca a noi risollevare tutti quei sogni interrotti nell’altezza che spettava loro. Vivere il quotidiano al cospetto della morte trasforma il giallo in epica, un genere che purtroppo le nostre vite anti-eroiche e alla moda trascurano da troppo tempo.

La Stampa, 29 aprile 2015

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