15 maggio 2019

Letti da rifare 59. Il bambino tiranno

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«Il bambino Giorgio, benché giudicato in famiglia un prodigio di bellezza fisica, bontà e intelligenza, era temuto. C’erano il padre, la madre, il nonno e la nonna, le cameriere, e tutti vivevano sotto l’incubo dei suoi capricci, ma nessuno avrebbe osato confessarlo, anzi era una continua gara a proclamare che un bambino caro, affettuoso, docile come lui non esisteva al mondo. Ciascuno voleva primeggiare in questa sfrenata adorazione. E tremava al pensiero di poter involontariamente provocare il pianto del bambino». Così comincia un racconto di Buzzati del 1954, nel quale narra le tragiche conseguenze dell’incapacità di esercitare l’autorità da parte di adulti che, inseguendo il consenso del loro bambino, finiscono per adorarlo e quindi rovinarlo. Le pagine di Buzzati mi sono tornate in mente il 2 maggio, quando la Camera, approvando la legge che introduce un’ora di educazione civica alle elementari e alle medie, contestualmente abrogava la misura che prevedeva mezzi disciplinari come: la nota sul registro con comunicazione scritta ai genitori, la sospensione, l’esclusione dagli esami o l’espulsione. Un cortocircuito tipico del nostro tempo: potenziare un’educazione civica astratta ma depotenziare l’autorità in atto, come se il suo esercizio, chiaramente non riducibile a quelle sanzioni, significhi fare violenza.

L’adorazione contemporanea del bambino, funzionale alla soddisfazione dell’adulto e che infatti ha come contropartita violenza e sfruttamento, fa dimenticare che il piccolo non è un «idolo» ma un «selvaggio» la cui umanità va educata: ciò che è umano nell’uomo non fiorisce spontaneamente, ma è il risultato di quanto assorbito nell’infanzia e nell’adolescenza, tappe preposte allo scopo di diventare responsabili di sé e del mondo. Il bambino non educato resta un egoista in balia delle sue pulsioni, iracondo e manipolatore come il piccolo tiranno buzzatiano: «Paurose di per sé erano le ire di Giorgio. Con l’astuzia propria di questo tipo di bambini, egli misurava bene l’effetto delle varie rappresaglie. Per le piccole contrarietà si metteva semplicemente a piangere, con dei singulti che sembrava gli dovessero schiantare il petto. Nei casi più importanti, quando l’azione doveva prolungarsi fino all’esaudimento del desiderio contrastato, metteva il muso e allora non parlava, non giocava, si rifiutava di mangiare: ciò che in meno di una giornata portava la famiglia alla costernazione. Nelle circostanze ancor più gravi le tattiche erano due: o simulava di essere assalito da misteriosi dolori alle ossa; oppure, e forse era il peggio, si metteva a urlare: dalla sua gola usciva un grido estremamente acuto, quale noi adulti non sapremmo riprodurre, e che perforava il cranio. In pratica non era possibile resistere. Giorgio aveva ben presto partita vinta, con la doppia voluttà di venire soddisfatto e di vedere i grandi litigare, l’uno rinfacciando all’altro di aver fatto esasperare l’innocente».

La crisi dell’autorità è propria del XX secolo: il ‘68 ne è stato un formidabile acceleratore, ma la crisi ha radici più profonde, come Hannah Arendt aveva già spiegato nel 1961 in Tra passato e futuro (in particolare nei capitoli «La crisi dell’istruzione» e «Che cos’è l’autorità»), dove spiega che, in una cultura in cui la tradizione (ciò che del passato vince l’usura del tempo perché è vero) è disattivata e quindi non viene trasmessa, gli educatori non hanno «un mondo» in cui introdurre i giovani: «Che gli adulti abbiano voluto disfarsi dell’autorità significa che rifiutano di assumersi la responsabilità del mondo in cui hanno introdotto i figli. Quasi che ogni giorno i genitori dicessero: “In questo mondo anche noi non ci sentiamo a casa nostra: anche per noi è un mistero come ci si debba muovere, che cosa si debba sapere, quali talenti possedere. Dovete cercare di arrangiarvi alla meglio, non siete autorizzati a chiederci conto di nulla. Siamo innocenti, ci laviamo le mani di voi”». Senza un mondo vero da proporre gli adulti vivono il loro ruolo educativo come colpa (violenza) e cercano nel figlio il perdono, ma il bambino «adorato» e «des-autorato», dovendosi autorizzare «da zero» e «da solo», diventa un divino tiranno.

Gli educatori non si sentono più titolati a porre limiti, divieti, doveri, eppure proprio i momenti di opposizione (soprattutto per il bambino di due anni e per l’adolescente), che destabilizzano il genitore, servono per costruire l’autonomia: bambino e adolescente vogliono sapere su cosa fondarsi e così mettono alla prova la solidità del terreno che gli si offre. Compito dei genitori è trovare in sé le ragioni e la credibilità per resistere e accettare la frustrazione della perdita del consenso filiale. La lacuna educativa è alla base dell’aumento di depressioni e dipendenze dei ragazzi: senza la «dipendenza buona» dall’autorità si generano dipendenze surrogate, perché l’uomo non è un essere «assoluto», ma «relativo», cioè bisognoso di relazioni significative. Un esempio è la mancanza di riflessione sull’uso del cellulare, sul quale consiglio l’intelligente, documentato e veloce libro di Stefania Garassini, Smartphone: 10 ragioni per non regalarlo alla prima comunione e magari neanche alla cresima. I genitori che mi dicono «lo hanno tutti, si sentirebbe escluso», mi confermano che il problema è prima di tutto di chi non ha le ragioni per dire «no» e sostenere il conflitto che nasce da un bene più grande, che un 9-10enne non percepisce.

La crisi dell’autorità viene dalla sua confusione con il potere, come mostra l’eliminazione delle sanzioni. Bambini e adolescenti, se non interiorizzano limiti, divieti e doveri, quando è il momento, rimangono infantili e diventano tiranni. L’autorità è invece naturale, si giustifica da sé, dal fatto che io vengo prima di te: il bambino non è un partner dell’educazione, non è un contratto alla pari. Nell’educazione, scrive Arendt: «si decide se amiamo tanto i nostri figli da non estrometterli dal nostro mondo lasciandoli in balia di se stessi». Ma qual è il nostro mondo? Negli anni Settanta i passeggini cambiarono orientamento: il bambino non guardava più il genitore, ma l’esterno: il genitore non faceva più da interprete del mondo dall’alto in basso, ma da accompagnatore. All’obbedisci e poi capirai si sostituì il mettiamoci d’accordo. In questo c’è sì un guadagno: la necessità di dare un senso, che non sia il mero «si è sempre fatto così», a ciò che si pretende, ma spesso, poiché non si sa quale sia questo senso, si lascia decidere il bambino o l’adolescente, gettandolo nello sconforto dell’onnipotenza. Tanti giovani non diventano adulti perché nessuno li ha educati al fatto che non sono padroni assoluti e incontrastati: l’autonomia, infatti, non nasce dall’ignorare limiti e doveri, ma dall’averli sperimentati, interiorizzati e attraversati. Sono i «no» dei miei genitori ad avermi reso forte e più sicuro nelle mie scelte.

Il bambino, dice Arendt, deve essere sì protetto dalle facoltà distruttive del mondo «ma anche il mondo deve essere protetto per non essere devastato dall’ondata di novità che esplode con ogni nuova generazione». Perché? Perché un’educazione senza autorità non «autorizza» il desiderio, senza limite o divieto il desiderio non si costruisce: a che serve crescere, se posso avere tutto e subito e se non esiste qualcosa da raggiungere più tardi? Il desiderio non educato dal gioco di autorizzazione e divieto diventa distruttivo: il soggetto non sa a cosa ancorarsi per fronteggiare la resistenza della vita, non può costruire obiettivi, cioè non ha futuro, si blocca e, per poter vivere, o regredisce o diventa violento. Invece l’autorità è legittimata proprio dal fatto che io sono prima di te, posso garantirti che un giorno anche tu sarai «autore» delle tue azioni. Per fare questo l’educatore è chiamato ad amare veramente, cioè trovare il coraggio di perdere il consenso di chi gli è affidato pur di proteggerlo: sta amando l’uomo/donna che quel bambino/a diventerà, perché l’infanzia non è la pienezza della condizione umana, ma la sua preparazione. Potrà farlo solo se non dipende lui dall’affetto del bambino, reso oggetto della propria soddisfazione anziché soggetto libero, e quindi capace di opposizione, come nel tragico ribaltamento del racconto di Buzzati, in cui è il bambino ad avere autorità sugli adulti: «“L’ho detto, io” fece la mamma; “l’ho sempre detto che è un angelo! Ecco che Giorgio ha perdonato al nonno! Guardatelo, che stella!”. Ma il bimbo li esaminò ancora ad uno ad uno; il padre, la mamma, il nonno, la nonna, le due cameriere. “E guardatelo che stella… e guardatelo che stella!…” canterellò, facendo il verso. Poi si mise freneticamente a ridere. Rideva da spaccarsi. “E guardatelo che stella!” ripeté beffardo, uscendo dalla stanza. Terrificati, i grandi tacquero».

Il letto da rifare oggi è quello del coraggio di educare: fate un elenco di «no» che non riuscite a giustificare e per i quali resistere. Chiedetevi perché questi «no» sono buoni per voi e quindi per l’uomo o la donna che vostro figlio/a diventerà. Il vero amore attraversa la negatività e sa darne ragione ai figli, perché la libertà è frutto di conquista. E il nostro compito di educatori è renderli liberi, non schiavi del loro o – peggio ancora – del nostro desiderio.

Corriere della Sera, 13 maggio 2019 – Link all’articolo e ai precedenti

9 risposte a “Letti da rifare 59. Il bambino tiranno”

  1. Barbara ha detto:

    Grazie per questo bellissimo articolo,condivido tutto quello che hai scritto, mi capita spesso di affrontare questi temi con i miei colleghi. Sono una giovane insegnante precaria che girovaga da una scuola all’altra e mi dispiace constatare come la politica non abbia a cuore l’educazione dei suoi giovani cittadini.

  2. Cristina ha detto:

    Il passeggino che cambia orientamento, a significare anche un cambio del genitore da interprete a accompagnatore… forse insignificante ad occhi superficiali, ma trovo che sia emblematico dell’autorità che perde autorità perchè non è ancora divenuto grande lui stesso. E così il padre diventa il compagnone, la madre la migliore amica della figlia (illusa…), tutti e due complici con i figli uno contro l’altro (ahi) e le mamme impazziscono a chiedere al bimbo di tre anni cosa vuoi da mangiare, come fosse un ristorante che ti accontenta ogni capriccio, salvo poi divenirne una vittima(i dolci Giorgio di oggi). E a volte quello che mi spaventa è cogliere negli occhi di questi genitori di questo tempo la paura di fronte alla persona-figlio che hanno davanti, perchè non lo vivono come una chiamata a trasmettere amore infondendo fiducia, ma come un dovere da eseguire che li terrorizza. E spesso le reazioni sono fuga, disinteresse, altri interessi, o accanimento. Ma come si fa ad aiutarli, con una società che certo non aiuta? Noi, genitori negli anni 70, già allora vivevamo il conflitto con altri genitori, che permettevano tutto, (forse Spock ne ha qualche colpa?) e ci sentivamo delle bestie rare, ma come dici tu, non abbiamo avuto paura di perdere il consenso e ringrazio Dio di questo, perchè nel tempo ha generato frutti. L’altro giorno mio figlio mi ha detto: mamma, io vi devo ringraziare, perchè non sarei riuscito ad diventare quello che sono se tu e papà non mi aveste educato in questo modo.

  3. Cristina ha detto:

    Il cambio di orientamento del passeggino da interprete ad accompagnatore mi sembra emblematico di quel cambiamento che ha portato nel tempo il padre ad essere il compagnone del figlio, la madre la migliore amica della figlia (illusa…), tutti e due complici dei figli all’insaputa ognuno dell’altro (ahi). E così le mamme si vestono da quindicenni e impazziscono a chiedere cosa vuoi da mangiare, quasi fossimo al ristorante, salvo non sapere poi cosa rispondere se ti chiedono le chiavi di casa. E negli occhi dei genitori di oggi leggo la paura di fronte a quell’estraneo-figlio che si ritrovano, perche non lo vivono come una chiamata a trasmettere amore, ma come un ingrato compito che li terrorizza. Senza fiducia, perchè a loro volta non sono ancora grandi (nonostante abbiano figli a 40 anni). Ma come si fa ad aiutarli, quando la stessa società non collabora di certo? Già noi genitori degli anni ’70 vivevamo il conflitto con altri che permettevano tutto (forse Spock ne ha qualche colpa?), e ci sentivamo delle bestie rare, ma come dici tu, non abbiamo avuto paura di perdere il consenso e ringrazio Dio per questo, perchè nel tempo ne abbiamo visto i frutti. L’altro giorno mio figlio mi ha detto: mamma, vi devo ringraziare perchè io non sarei riuscito a diventare quello che sono se tu e papà non mi aveste educato come avete fatto, alla fatica, all’ordine, alla disciplina, per raggiungere ciò che amavo fare.

  4. Cristina ha detto:

    Il cambio di orientamento del passeggino da interprete ad accompagnatore mi sembra emblematico di quel mutamento che ha portato nel tempo il padre ad essere il compagnone del figlio, la madre la migliore amica della figlia (illusa…), tutti e due complici dei figli all’insaputa ognuno dell’altro (ahi). E così le mamme si vestono da quindicenni e impazziscono a chiedere cosa vuoi da mangiare, quasi fossimo al ristorante, salvo non sapere poi cosa rispondere se ti chiedono le chiavi di casa. E negli occhi dei genitori di oggi leggo la paura di fronte a quell’estraneo-figlio che si ritrovano, perché non lo vivono come una chiamata a trasmettere amore, ma come un ingrato compito che li terrorizza. Senza fiducia, perché a loro volta non sono ancora grandi (nonostante abbiano figli a 40 anni). Ma come si fa ad aiutare questi genitori, quando la stessa società non collabora di certo? Già noi genitori degli anni ’70 vivevamo il conflitto con altri genitori che permettevano tutto (forse Spock ne ha qualche colpa?), e ci sentivamo delle bestie rare, ma come dici tu, non abbiamo avuto paura di perdere il consenso e ringrazio Dio per questo, perché nel tempo ne abbiamo visto i frutti. L’altro giorno mio figlio mi ha detto: mamma, vi devo ringraziare perché io non sarei riuscito a diventare quello che sono se tu e papà non mi aveste educato come avete fatto, alla fatica, all’ordine, alla disciplina, per raggiungere ciò che amavo fare.

  5. Maria Rosaria Del Medico ha detto:

    A più di sessant’anni da “Il bambino tiranno” di Buzzati, la realtà eccede ciò che lo scrittore aveva messo in evidenza in quel racconto. Da sempre è complesso parlare di educazione ma per chi vuole contribuire ad insegnare a vivere all’attuale generazione e dare un senso al tempo che stiamo vivendo lo è estremamente. E’ in atto da anni una rivoluzione selvaggia, un imbarbarimento delle relazioni umane, un degrado dei comportamenti. Cortesia, rispetto, riconoscenza, riservatezza non esistono quasi più, dominano invece invidia e gusto dell’insultare e umiliare il prossimo. I mezzi di comunicazione sono sempre accesi mentre la comprensione tra gli uomini si è spenta , questo sta creando malessere psichico, comportamenti anomali e isolamento. Il mondo virtuale è riuscito in pochissimo tempo a stravolgere e snaturare gli umani processi emotivi, cognitivi , creativi e anche a distruggere , in qualche caso, il lavoro ben fatto di qualche raro educatore di buona volontà.
    Non si può che constatare un’emergenza educativa!
    Intanto lei professore vigila, sceglie e prende in esame con cura un “nodo” della matassa ogni lunedì suggerendo anche una maniera utile a tutti per riflettere e provare a scioglierlo.
    Grazie!
    M.R.D.M.

    • Prof 2.0 ha detto:

      Cara Maria Rosaria, io cerco solo di chiarire a me ciò che vedo per avere strumenti efficaci di resistenza e di azione. Speriamo servano. Grazie a lei

      • Maria Rosaria Del Medico ha detto:

        La sua risposta è stata per me un onore inaspettato.
        Sono certa che l’inestimabile lavoro che lei fa rimarrà come eredità, fatta di parole, di gesti, di atmosfere respirate, soprattutto ai suoi studenti.
        Le assicuro poi che anche tutti coloro che leggono i suoi scritti e la seguono in vario modo non mancheranno di mostrarle stima e gratitudine.
        Buone cose!
        M.R.D.M.

  6. Allebasi ha detto:

    Purtroppo oggi si può assistere al fenomeno chiamato dall’antropologo De Martino ” crisi della presenza” (e dell’autorità).
    La presenza deve essere intesa come il nucleo sostanziale del soggetto impregnato di energie costruttive. Un soggetto che ha fiducia in sé, nelle sue capacità di incidere sul mondo.
    Un effetto di questa “crisi della presenza” si palesa nell’atteggiamento degli adulti che, spesso, rinunciano al loro ruolo educativo.
    Parlo di adulti in generale: genitori, educatori, insegnanti, ma anche altri.
    Abbiamo paura delle frustrazioni e della “debolezza” esistenziale dei nostri giovani.
    Temiamo e pensiamo che non siano in grado di reggere gli “urti della vita”, i fallimenti, le sconfitte.
    Oltre a questo, abbiamo paura di perdere il loro affetto, abbiamo paura di proferire quei “no che aiutano a crescere”.
    La loro debolezza è la nostra,ma se rinunciamo al nostro ruolo per ottenere consenso siamo spacciati.
    Tale paura che abbiamo mette in luce le nostre debolezze e fragilità. Se non possiamo rinunciare al consenso è perché siamo dipendenti dagli altri e in questo caso, dai nostri giovani. Com-piacere per piacere (ai nostri figli, allievi, educando). Forse è questo il vero problema: ci sforziamo di piacere ai nostri giovani sempre, a ogni costo, rischiando di abdicare al nostro ruolo educativo.
    Dobbiamo ritornare al valore educativo delle frustrazioni per far capire ai nostri ragazzi quali sono i loro (e i nostri) limiti.
    La famiglia non deve trasformarsi in un “bancomat” perenne, ma impartire regole, offrire cura ed educare al senso di stare al mondo.
    La scuola non può assumere e sussumere criteri aziendali poiché la scuola non è un’azienda.
    L’azienda pensa alla customer satisfation e a compiacere i clienti. La scuola pensa a persone in formazione.
    Non deve essere elitaria, ma nemmeno livellare la massa verso il basso.
    Dobbiamo tornare a pronunciare parole come “sacrificio”, “rinuncia”, anche se, come dicono le tecniche di comunicazione, sono parole a valenza suggestiva negativa!
    Ma non possiamo edulcorare la realtà e quindi bisogna tornare a pronunciarle.

  7. Paola ha detto:

    Chi educa (o almeno ci prova) come me, alla scuola dell’infanzia, sa bene che senza un “accordo” silente tra insegnante e genitori non si potrà avere una educazione efficace, o equilibrata.
    Quello che mi sembra di notare maggiormente nella famiglia odierna è un rimandare una presa di posizione nei confronti della vita e quindi dell’autorità e dell’educazione dei figli. Come se magicamente i bambini diventeranno ragazzi e quindi adulti capaci di decidere da soli come ‘intraprendere’ la vita e il mondo circostante. Ma l’infanzia non è una preparazione alla vita adulta? Io sapevo di sì. Prima di iniziare qualsiasi attività fisica non ci si deve riscaldare? Prima di suonare uno strumento non si deve studiare la musica? Ricordo con un vivo ricordo quando, prima di entrare in campo e iniziare la partita di pallavolo, l’allenatore ci faceva correre intorno al campo per un tempo infinitamente lungo per tutti noi. E l’attesa, la tanto agognata partita era una gioia immensa, indipendentemente dall’essere vincitori o vinti. Rimanendo in tema di gioco: to play sports and to play music, ho un altro estenuante ricordo dello studio del solfeggio. Quell’infinito movimento senza sosta del braccio, in alto, in basso, a sinistra, a destra ininterramente, al tempo del metronomo. Dopo un intero anno di quel su e giù iniziavo ad odiare il maestro, il pianoforte e la musica tutta. Basta!! Ma perché non potevo suonare, perché non mi lasciava provare? Avevo capito, mi era tutto chiaro. No, non era ancora il momento giusto, la preparazione non era ancora terminata, non era pronta! Nonostante io provassi a rifiutarmi, i miei genitori non mi hanno ascoltata, non hanno ceduto alla mie lamentele, ai miei capricci.
    Finalmente arrivò il fatidico giorno: misi le mie dita sui tasti del pianoforte. Il ritmo era ormai un argomento che conoscevo alla perfezione. Quei tasti erano stati davanti a me così tanto tempo, immobili, vicini al mio corpo, che ora che potevo suonarli ero terrorizzata. Ringrazio i miei genitori per non avermi ascoltata. Adoro tutto ciò che concerne la musica, il suono, il ritmo, il pianoforte. Perché se c’è una preparazione obbligatoria per tutto ciò che ruota intorno alla vita: la musica, le arti varie, lo sport, non ci deve essere per la vita stessa. Cosa sono le regole se non il modo di muoverci in libertà in una pluralità di libertà? Come potranno saper vivere i bambini e i ragazzi domani senza quest’ordine oggi? Le regole sono ordine. Senza ordine regna il caos. I bambini vogliono le regole, cercano l’ordine, per questo ci sfidano, perché vogliono avere da noi un punto (di riferimento), una direzione.
    Mamma mia come sono prolissa, perdono!

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