26 settembre 2019

Ultimo banco 3. K. tra rinuncia e partenza

«Era di mattina molto presto, le strade pulite e deserte. Andavo alla stazione. Confrontando il mio orologio con quello di un campanile, vidi che già era molto più tardi di quanto avessi creduto, dovevo affrettarmi, l’ansia per quella scoperta mi fece incerto della strada, non conoscevo ancora bene quella città; per fortuna lì vicino c’era una guardia, corsi da lui e senza fiato gli domandai la strada. Egli sorrise e disse: “Da me vuoi sapere la via?”. “Sì”, dissi, “perché non riesco a trovarla da me”. “Rinuncia, rinuncia!”, disse e si girò bruscamente, come chi vuole essere solo con la propria risata». Avevo 17 anni quando Franz Kafka mi fece scoprire che la realtà è una metafora della grande narrativa e non viceversa. Il brevissimo racconto s’intitola Rinuncia e mi è tornato in mente leggendo, sulle pagine di questo giornale, la recente intervista a Umberto Galimberti che denuncia: «i ragazzi non stanno bene, ma non capiscono nemmeno perché. Gli manca lo scopo. Per loro il futuro da promessa è divenuto minaccia. Bevono tanto, si drogano, vivono di notte anziché di giorno per non assaporare la propria insignificanza sociale. Nessuno li convoca». Personalmente vedo anche altri ragazzi, statisticamente meno numerosi o rappresentati, ma non per questo meno rilevanti, e sono altresì convinto che il dolore dell’insignificanza sia una risorsa educativa e non un capolinea, ma: «Nessuno li convoca». Perché? Manca la chiamata, l’assenza di scopo infatti riguarda chi lo scopo dovrebbe mostrarlo, gli educatori: «Nel 1979, quando cominciai a fare lo psicoanalista — prosegue Galimberti — i problemi erano a sfondo emotivo, sentimentale e sessuale. Ora riguardano il vuoto di senso». Nichilismo e individualismo sono, oggi, la Grande Rinuncia alla vita.

Il vuoto di senso ha i suoi guardiani, come racconta Kafka: essi non dicono che non ci sia una strada, ma scherniscono chi la cerca, voltandosi dall’altra parte, con una risata. Sono coloro che, a vario titolo, annichiliscono (la radice è la stessa di nichilismo) le vite loro affidate. In qualsiasi ambito (politico, economico, professionale, educativo…), i burocrati della Rinuncia non spingono ma spengono la vita: attorno a loro fioriscono censura, invidia, calunnia, disunione, sospetto, paura, menzogna, sotterfugio, sopruso, violenza… La loro risata «di spalle» suona a scherno, ma tradisce la paura di essere smascherati, perché la chiamata a cui hanno rinunciato non viene meno: una voce sussurra dentro di noi e, nel nostro cuore, se non siamo già vittime della Rinuncia o addirittura agenti della sua Burocrazia, cova sempre un po’ dell’ardore dell’Ulisse dantesco. Lo rappresenta lo stesso Kafka in un altro micro-racconto: Partenza. Scritto nello stesso anno di Rinuncia (1922), ne è l’altra faccia: «Ordinai di andare a prendere il mio cavallo dalla stalla. Il servo non mi capì. Andai io stesso nella stalla, sellai il mio cavallo e vi montai. In lontananza sentii suonare una tromba, chiesi al servo che cosa volesse dire. Egli non lo sapeva e non aveva sentito niente. Presso il portone mi trattenne e domandò: “Signore, dove vai?”. “Non lo so – dissi – solo via di qua, solo via di qua. Sempre via di qua, solo così posso raggiungere la mia meta”. “Conosci allora la tua meta?”, chiese. “Sì – risposi – Te l’ho detto: ‘Via-di-qua’. Ecco la mia meta”. “Non hai viveri con te”, disse. “Io non ne ho bisogno – dissi – il viaggio è così lungo, che dovrò morire di fame, se non ricevo nulla sulla via. Nessuna provvista mi può salvare. Per fortuna è un viaggio veramente immenso (ungeheure)”». Il finale sembra paradossale, ma paradossali sono le verità essenziali dell’arte di vivere.

La meta del viaggio è Via-di-qua: via dalla rinuncia al senso della vita. La Partenza è il primo atto di ribellione necessario contro la Rinuncia, perché chi rinuncia si trova, prima o poi, senza vita o addirittura contro la vita. Chi è vicino a noi non capirà: solo noi abbiamo sentito il suono della convocazione. Siamo noi a decidere e niente di quello che ci hanno dato finora può «salvarci», perché il cammino è lungo quanto tutta la nostra anima, sulla cui irripetibile via non ci si può nutrire di nessun’altra provvista se non quella che vi si trova o vi si riceve, perché solo la ricerca di senso rende il senso già presente. Possiamo certo ignorare la chiamata, ma si ripresenterà, con il passare del tempo, più forte e dolorosa, quanto più vicina sarà l’ultima chiamata, quella per cui la Partenza sarà inevitabile. Cacciamo via i guardiani, interni o esterni, dell’assenza di scopo. Andiamo Via-da-qua, via dall’ultimo banco della vita: la Rinuncia. È l’ora della Partenza. Il viaggio sarà (Kafka usa ungeheur, parola tedesca bellissima per estensione di significato e centrale nella sua creazione artistica): enorme, tremendo, spaventoso, immenso, straordinario, incredibile. Proprio come la vita.

Corriere della Sera, 23 settembre 2019 – Link all’articolo e ai precedenti

7 risposte a “Ultimo banco 3. K. tra rinuncia e partenza”

  1. Pepita Jimenez ha detto:

    Questo è un vademecum per la vita quotidiana… per partire e ri-partire.
    Mi sono venute in mente le parole: partire e partorire. Hanno la stessa radice. Forse perché il momento del parto rappresenta un momento di partenza.
    Per quanto riguarda i guardiani del nichilismo penso proprio che siano come il cane dell’ortolano: non mangiano e non lasciano mangiare. Spero per loro che abbiano la volontà/desiderio di ripartire e di sperare… Spero che possano sorridere alla vita, senza ghignare alle
    spalle degli altri… Con rinnovato interesse per la sorte del mondo

  2. Carmen ha detto:

    Rileggo i tuoi passi sulla luna di Leopardi ne “L’arte di essere fragili” e comprendo il segreto che il poeta ti ha svelato tra uno sguardo tremulo di pianto e i molteplici interrogativi al più lieve, sospeso e pieno satellite che ci circonda. La vita, tu sveli, non è equilibrio, ma tensione, pienezza mai raggiunta, “movimento fedele” verso la propria destinazione. Kafka, come Leopardi, imparano la dura arte di esistere, pur rimanendo in conflitto col mondo, e così diventano eroici, erotici, resistenti e resilienti. Gli adolescenti di oggi non sono diversi da loro, tra la rabbia e l’attesa di una chiamata che li faccia sentire presenti, esistenti, unici e indispensabili. Solo lo sguardo di chi, come Leopardi, ha vissuto la sua piena adolescenza con affanno e con speranza può comprendere e colmare quel vuoto di senso, comunque apparente, e incoraggiare a partire, ad accettare quel viaggio straordinario dalle fermate non programmate, che rappresenta la vita. Il vuoto non diventa rifiuto se non perdiamo il contatto col mondo, se ci serviamo di quello strumento d’interpretazione di esso che in Leopardi e in Kafka si chiamava immaginazione, creazione, processo teso sempre al compimento. E allora, sempre, e comunque, partenza!

    • Maria Rosaria ha detto:

      Ciao Pepita eccomi a rispondere al tuo gradito messaggio.
      Anch’io leggo con interesse le considerazioni che ciascuno riesce ad estrapolare dall’articolo settimanale di D’Avenia che è una sorta di “Matrioska” che ognuno può aprire e partendo dalla madre liberare le altre mettendole in fila, fermarsi quando vuole o proseguire fino alla più piccola che è come un seme nascosto e come tale ha una capacità generativa.
      Hai ragione riguardo l’etimo della parola :crisi. Nell’idea di crisi sono infatti inclusi il concetto di problema e quello del suo superamento. La crisi insomma può essere anche un’opportunità. Infatti una situazione di crisi è un tempo di riflessione, di valutazione e può trasformarsi nel presupposto necessario per un miglioramento, per una rinascita, per scoprire nuove risorse che prima s’ignoravano.
      Per quanto riguarda l’educazione e l’istruzione, siamo ospiti qui del Prof 2.0 che ha talento, competenza, capacità relazionali, attitudine a trasferire conoscenze che fanno crescere, inclinazione ad alte progettualità, chi meglio di lui può essere giudice di ciò che accade nella scuola e sapere di cosa necessita un sistema che conosce molto bene?
      Tuttavia possiamo dire che la politica da troppo tempo lascia la scuola “all’ultimo banco” .
      M.R.D.M.

      • Pepita Jimenez ha detto:

        Hai ragione, Maria Rosaria.
        Questi articoli della rubrica di D’Avenia sono veramente come una “matrioska”. Possiedono diversi livelli di interpretazione e si connettono a tanti argomenti… Per questo mi piace molto leggerli.
        Per quanto riguarda il concetto di crisi, l’hai descritto meravigliosamente. Più che d’accordo con te!
        Un caro saluto,
        Ai prossimi articoli

  3. Maria Rosaria ha detto:

    La crisi, da sempre è dell’uomo, cioè della persona, fa parte del mistero della mente e di ciò che a volte l’inconscio impone.
    Dopo la nascita nel 1900 della psicanalisi sono emerse altre teorie e oggi sono molto frequentati i centri dove operano: psicologi, psicoterapeuti, psicanalisti che sono in grado di fare un quadro sulla situazione dei malesseri più diffusi nella società e di frequente attribuiscono le colpe dei disagi giovanili a chi si occupa di educazione e istruzione cioè famiglia e scuola.
    Quella che fa Umberto Galimberti è un’analisi lucida, spesso impietosa di una società opulenta che si è impoverita culturalmente, dove non c’è più la capacità di relazionarsi.
    Anche Paolo Crepet traccia un panorama aspro della realtà, dichiarando che sarebbe necessario un coraggioso ritorno ad una educazione severa basata sul dare poco e togliere molto e la scuola dovrebbe risvegliare le passioni mettendo in campo le migliori risorse umane.
    Massimo Recalcati è forse la voce più carica di speranza, guarda le metamorfosi delle istituzioni con ottimismo.
    E’ di tutti la convinzione che incontrare un buon maestro può cambiare la vita perché vivere significa agire e per agire si ha bisogno di conoscenze pertinenti né mutilate né mutilanti. E’ vero che oggi molti ragazzi fanno fatica ad agire e a reagire e c’è una diffusa sofferenza da una parte dei genitori che si sentono a volte frustrati, impotenti, inadeguati e persino disprezzati e dall’altra dei figli che soffrono nel sentirsi incompresi e non stimati. Si ha l’impressione che chi avrebbe il compito di essere una guida spesso abbia egli stesso il bisogno di essere guidato. Con l’andare degli anni,laddove ci sono stati screzi, arriva un momento in cui si sente la necessità di una guarigione dei rapporti familiari ma il più delle volte non si trova il coraggio di affrontare un chiarimento che sembra impossibile.
    A tal proposito sia Leopardi che Kafka hanno scritto una “Lettera al padre” che in entrambi i casi non è mai stata recapitata.
    Leopardi la scrisse prima di una “Partenza” desiderata ma non avvenuta che lo condusse poco dopo a scrivere “L’infinito”.
    Kafka, gravemente malato, fece di questa sua lunga lettera una sorta di denuncia della paura che il padre gli incuteva fin da quando era bambino con tutti i dettagli che lo avevano condotto a fare una vita di “Rinuncia”.
    Entrambi il “Via-di-qua” l’hanno trovato nello studio e nella scrittura prendendo e consegnando parole ciascuno lungo il proprio viaggio “straordinario”.
    Un giovane di oggi che sembra smarrito in un luogo non luogo dove ogni direzione sembra possibile e impossibile allo stesso tempo, potrebbe dire in futuro:”Guardai:non c’era nessuno capace di consigliare,nessuno da interrogare per avere una risposta”(Isaia 41-28)
    Allora ci sarà qualcuno che si prenderà la responsabilità di ammettere di non aver saputo neanche provare a dare un’indicazione?

    Grazie professore per difendere sempre strenuamente i nostri ragazzi!

    M.R.D.M.

    • Pepita Jimenez ha detto:

      Ciao Maria Rosaria. Molto bello il tuo commento all’articolo (come quello di Carmen).
      Come dici tu, la crisi è costitutiva dell’uomo. Noi l’abbiamo caricata di un significato negativo. In realtà, crisi deriva dal greco “crino” cioè giudico.
      La crisi può servire per capire qual è la strada da prendere. Ad esempio, sapere che i ghiacciai si stanno sciogliendo è un segnale, anzi un allarme per agire tempestivamente.
      Anche lo psicologo Erikson diede importanza alle crisi come momento di svolta della propria vita, come momento di ri-partenza. Secondo lui ciò che dobbiamo temere non è la crisi, ma la stagnazione :uno stato sterile, una cristallizzazione dell’essere,in cui la persona rimane ferma, statica. Uno stato in cui cessa ogni sentimento della vita, ogni interesse. Uno stadio non creativo, non generativo.
      Di Galimberti ho apprezzato molto il libro “L’ospite inquietante. Il nichilismo e i giovani”. L’ho letto tempo fa, ma lo rileggerei volentieri.
      Non sono completamente d’accordo con Crepet: anche io credo in una scuola severa, ma non in una scuola che toglie molto. Credo in una scuola che non rinunci a bocciare (quando serve) .
      Si può dire che oggi la scuola abbia bocciato la bocciatura.
      Gli insegnanti, i dirigenti scolastici hanno paura di bocciare. Devono a tutti i costi indorare la pillola cambiando linguaggio : non si parla più di bocciatura ma di “non ammissione”. “L’alunno non è ammesso alla classe terza”. Poco probabile anche questo. Vedo poche, anzi nulle “non ammissioni”. In questo punto sono d’accordo con Paola Mastrocola e Isabella Milani, due insegnanti che hanno lottato per la severità nella scuola.
      Oggi si ha paura di traumatizzare l’adolescente. Non lo bocciamo sennò gli viene una crisi isterica, se va bene. Abbiamo paura. Paura dei traumi!
      Per questo abbiamo rinunciato all’educazione,perché richiede una dose di severità e di regole.
      Sia chiaro : la bocciatura deve essere meritata e servire all’educazione della persona, non per scopi punitivi.
      Ma oggi in un indistinto qualunquismo da paura buttiamo via il bambino con l’acqua sporca, oppure, al contrario, ci teniamo tutto. Pure l’acqua sporca (sennò si traumatizza pure lei).
      Bisogna ricordare alla scuola che se promuoviamo tutti, il messaggio che rischia di arrivare è questo: “Caro ragazzo. Vivi pure nel paese dei balocchi, non impegnarti a scuola, ma nemmeno nella vita, tanto a Giugno gli insegnanti ti regaleranno la promozione”.
      Una scuola che metta al centro le passioni, non un contenitore da riempire.
      Una scuola di passioni, ma anche con una modica dose di severità.

  4. Beatrice ha detto:

    Mi viene in mente una poesia di Franco Arminio e allora ecco che anche i commenti diventano matrioske:

    E poi arriva uno sguardo,
    un urlo in cui il mondo
    si scuce, ti guarda da dentro e non ti riconosce. Allora senti
    che non c’è accordo con nessuno.
    Dunque: esci per incontrare un albero,
    innamorati del mondo,
    ma non farne una storia,
    un vanto. E sappi che la miseria
    ti salva. E sappi che sei salvo
    quando si svela la tua pochezza.
    Pensa alla fortuna di non essere capito,
    pensa che c’è un punto in cui tutto si rompe.
    Non evitarlo mai quel punto,
    da lì puoi uscire dalla prigione
    in cui ti mette ogni volere,
    la prigione del benessere o del dispiacere.

    Grazie per questi momenti di riflessione.

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