28 novembre 2023

Ultimo banco 180. Faccia a faccia

Per vivere abbiamo bisogno del mondo: ci apriamo a ciò che è fuori di noi per necessità. Andiamo incontro a cose e persone perché ci sono utili: il nostro strato animale è fatto di bisogni. Noi umani però non ci apriamo per sola necessità: gli animali non apparecchiano la tavola, non guardano i tramonti, non scrivono lettere d’amore… Ciò di cui l’animale ha bisogno se lo prende dal più debole, con la forza, l’uomo invece lo regola attraverso le relazioni commerciali, d’amore e di amicizia. Ma se le relazioni sono fragili prevale lo legge di natura, dove domina chi è più forte, e la forza diventa violenza quando l’altro è percepito come proprietà o minaccia.

Se il 25 novembre si deve ancora celebrare una giornata contro la violenza sulle donne è perché questa violenza tocca soprattutto la relazione primaria. Ma anche qui la natura dà indicazioni chiare: mentre gli animali si ri-producono (producono l’uguale, la specie), gli umani “fanno” l’amore cioè la relazione. I primi si accoppiano solo quando è necessario, i secondi quando vogliono e, a differenza degli animali, guardandosi in viso: se l’evoluzione ci ha portato a questo gioco libero e “faccia a faccia” è perché la sopravvivenza umana non riguarda la specie ma la persona: si diventa se stessi solo facendo la relazione con l’altro. E il volto è il luogo di questo gioco. Perché?

L’animale ha il muso, non il volto, non si racconta, l’uomo sì. Noi facciamo l’amore per dare nascita l’uno all’altro, e questo ci dà gioia. Ma se questo non accade l’uomo regredisce a predatore, rinuncia alla sua evoluzione e si sente vivo alla maniera del bruto (animale in latino), possedendo e sottomettendo: dice “mio”, come il bambino che strappa il gioco a un altro, per dire “io”. La violenza è infatti paradossalmente proporzionale alla debolezza del sé, il bisogno non matura in relazione, resta egocentrismo infantile. Negli ambienti malavitosi, culmine di questo infantilismo del potere, si dice “meglio comandare che fottere”: i due fenomeni sono percepiti come gradazioni di potere, si esiste nella misura in cui si domina e sfrutta l’altro.

Nella prima parte della narrazione simbolica della creazione biblica, Adamo non è il maschio ma l’Umano (l’umanità intera: adam significa semplicemente fatto di adamah, la terra), e ha la sua essenza nella dimensione relazionale, infatti la donna è tratta “dal fianco” per indicare simbolicamente che è della stessa materia (corpo sociale), l’Umano è uni-duale, cioè la sua essenza è la relazione: l’altro gli è, appunto, “a fianco”. L’umano non è in-dividuale (letteralmente l’in-divisibile), ma duale (il con-divisibile), e se nel racconto il principio maschile sottolinea il fare (lavorare il giardino di Eden), quello femminile l’essere (Eva significa semplicemente la Vivente), è perché le due dimensioni sono proprie, prima, dell’Umano, e poi, della dualità corporea uomo-donna: tutti siamo chiamati singolarmente e socialmente a dar vita attraverso la capacità creativa (e il primo lavoro umano è proprio la relazione, un lavoro che non si improvvisa). L’individualismo ci fa invece credere che l’uomo è uno e deve auto-costruirsi tecnicamente, e quindi la dimensione relazionale da essenziale diventa puramente funzionale. Nel racconto quando l’umano vede per la prima volta l’altra, pieno di stupore dice: “è come me”, soggetto non oggetto. Scopre di essere relazione, prima in se stesso: è capace di dialogo interiore. E poi fuori di sé: con l’altro, che è parte di lui senza essere sua proprietà. Il male comincia quando agiscono soli, individualisticamente. Se la donna non è “come me”, e quindi “altro da me”, ma “mia”, e quindi “altro per me”, smette di essere soggetto e diventa oggetto, mezzo.

Una cultura individualista non riconosce e non educa alla dualità, alla relazione come essenza dell’Umano: il mondo e gli altri sono il self-service del self-made man. L’altro in quanto “mezzo” è riserva di “pezzi” di ricambio: lo si fa a pezzi nella mente e nel cuore prima che nelle mani. Una frase di Cristo, uomo scandaloso per come trattava le donne (persino quelle ritenute “intoccabili”) va alla radice: «Fu detto: “Non commettere adulterio”. Ma io vi dico: chiunque guarda una donna per dominarla, ha già commesso adulterio con lei nel cuore» (Mt 5). La traduzione “ha già commesso adulterio con lei” nell’originale suona “ne ha distrutto l’integrità”, cioè “l’ha cor-rotta”: l’ha rotta, fatta a pezzi.

L’invocata educazione alle relazioni che vogliamo affidare alla scuola non basterà a mutare un modo di essere che si struttura nell’infanzia e nell’adolescenza sulla base dei vissuti relazionali, né sarà sufficiente qualche lezione teorica a trasformare lo sguardo individualista in relazionale. Serve un modo nuovo di vivere e intendere il rapporto con gli altri, per accedere a un’energia dell’essere differenti che ci è divenuta inaccessibile: l’individualismo combinato al consumismo è infatti la negazione delle relazioni umanizzate e la resa ai bisogni.

Una cultura che elimina il corpo con l’uso continuo degli schermi dati ai bambini, che avalla la pornografia, la pubblicità, le trasmissioni e le piattaforme social in cui la donna è ora Venere sacra (la sua presenza, divinizzata e idealizzata, serve a erotizzare oggetti o magnificare situazioni) ora Venere profana (è lei stessa l’oggetto da vendere e usare), è una cultura ipocrita perché prima allena lo sguardo che “fa a pezzi” la donna e poi si scandalizza per la mancanza di rispetto. In una cultura individualistica e consumistica l’educazione sentimentale diventa così ben presto retorica. Solo un’educazione dello sguardo, e quindi del cuore e della mente, “all’integrità” (il contrario di dis-integrare: “fare a pezzi”) dà agli umani un volto. Questo sguardo si struttura sin da piccoli interiorizzando il modo in cui, a casa, a scuola, per strada, in tv, gli adulti si rapportano prima con se stessi e poi tra loro: oggetti o soggetti?

La violenza è in tutti, uomini e donne, di tutte le età e strati sociali: è nella persona. E solo un’educazione relazionale può arginarla, perché allena a sentire l’altro come me stesso: se lo ferisco ferisco me, se lo abbraccio abbraccio me. E tutto comincia dal faccia a faccia della relazione.

Provate a tenere oggi la mano sul volto di qualcuno per almeno un minuto, in silenzio. Quella stessa mano che potrebbe far violenza sentirà piano piano che il confine del corpo non è l’io ma il noi, un pronome che in una poesia Mariangela Gualtieri definisce largo quanto tutti i viventi. Noi diamo vita all’Umano solo insieme, l’eros ci spinge a unirci e accogliere il peso e il bello della differenza, in una energia e novità d’essere che brilla in quella luce duale che chiamiamo amore.

Corriere della Sera, 27 novembre 2023 – Link all’articolo e ai precedenti

4 risposte a “Ultimo banco 180. Faccia a faccia”

  1. Silvia ha detto:

    Grazie Alessandro 🌹

  2. Elena ha detto:

    Condivido in tutto. Ci voleva questa riflessione “non retorica”. Grazie di cuore…

  3. Michela ha detto:

    Ciò che di più profondo abbia letto in questa miriade di parole vomitate qua e là. Grazie.

  4. Tutto giusto ciò che Alessandro afferma, ma a mio avviso manca qualcosa, ossia la consapevolezza che l’essere umano non sia solamente fatto di corpo, bensì anche di mente, anima e spirito. A quasi 65 anni, quasi tutti vissuti in salita (a causa di una paralisi cerebrale occorsami ad un anno di età), e dopo essere andato in pensione, ho avuto modo di chiedermi il perché di questa mia vita “pesante”, in un mondo che fa del corpo l’essenziale, mentre esso dovrebbe rappresentare unicamente una sorta di vestito per l’anima (ad un atleta è capitato un corpo come vestito da boutique, a me da discount). Dovremmo imparare a considerare l’essere umano come un insieme di corpo, mente, anima e spirito.
    Il primo passo in questa direzione mi fu indicato dai miei compagni di classe delle superiori (1973-1978) che, di fronte ad un mio lamento, mi ripresero facendomi presente che per studiare era importante avere la mente a posto, il cervello, i neuroni, ecc… non di certo il corpo e che, visto che eravamo tutti lì per studiare io ero uguale a loro.
    Poi, le continue cadute, le rotture o il logoramento di questa o quella parte del mio corpo, nell’indifferenza quasi totale della società che mi circondava, distratta dal proprio lavoro, dai propri pensieri, dagli impegni inderogabili, dalla carriera e quant’altro, mi hanno costretto a cercare altrove le risposte alle numerose domande che mi frullavano nella testa. Così ho iniziato a leggere, a documentarmi, ecc.. e alla fine ho considerato il fatto che “corpo”, inteso non come vocabolo, bensì per ciò che rappresenta è l’unica parte dell’essere umano ad aver un sesso, maschile o femminile. Non mi risulta che esistano mente, anima e spirito, maschili o femminili.
    Quindi, secondo me dovremmo andare oltre il corpo, vedere l’altro/a per ciò che è nel suo intimo. si dice: gli occhi sono lo specchio dell’anima. Ecco, se imparassimo a guardarci negli occhi, con sentimento, potremmo vederci come anime.
    Rita Levi Montalcini affermò una volta: “Io non sono il corpo, ma la mente.” Ebbene, io mi permetto di affermare di essere: un corpo (per quel che mi riguarda simile a una vecchia carriola arrugginita con la ruota sgonfia), una mente, un’anima e uno spirito. Io redo che occorra partire dalla consapevolezza di essere altro, oltre al corpo. Se lo facessimo molti problemi sarebbero risolti, secondo me.

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