2 luglio 2019

Letti da rifare 66. Un letto terra terra

File:Woher kommen wir Wer sind wir Wohin gehen wir.jpg

Tahiti, 1897. Un uomo dipinge senza posa da un mese su un’immensa tela grezza, fatta di sacchi cuciti: è il suo testamento, poi si ammazzerà. Paul Gauguin, fuggito da una Francia falsamente viva, lascia la famiglia e va nel cuore del Pacifico, ma neanche in Polinesia trova il paradiso e l’innocenza in cui sperava. Cambia cielo non anima chi corre per mare: al suo inferno interiore si aggiunge la notizia della morte della figlia Aline, di 8 anni. Così prova a sconfiggere la tenebra con i colori e, come un condannato a morte, dipinge il suo ultimo desiderio, che intitola «Da dove veniamo? Chi siamo? Dove andiamo?»: «Ai due angoli in alto, dipinti in giallo cromo, c’è il titolo a sinistra e la mia firma a destra, come un affresco, guasto agli angoli, applicato su un fondo oro». Era la fine e il fine della sua ricerca artistica ed esistenziale: «Ho trasmesso in questo quadro tutta la mia energia, una così dolorosa passione in circostanze così tremende che la vita ne sgorga fuori direttamente». Il dipinto ruota attorno a una donna che coglie un frutto, ma attorno a lei è rappresentato il tragico evolversi delle stagioni della vita verso la morte: la vita è una grande promessa non mantenuta. Il grandioso quadro non basta a ritrovare la speranza e Paul ingerisce il veleno, ma in quantità tale da vomitare, scampando alla morte che lo coglierà qualche anno dopo, per sifilide. Anche il suo amico Vincent Van Gogh aveva perso la speranza e, sette anni prima, mentre dipingeva nei campi di Auvers-sur-Oise, si era sparato un colpo di pistola. Due anime inquiete e parallele, alla ricerca di una irraggiungibile vita autentica.

Nel quadro di Paul la natura polinesiana resta uno scenario fantastico e l’oro, che esce dai finti angoli, è quello del fondo delle icone: un oltre eterno, ma qui celato e irraggiungibile. Quell’oro ha la stessa origine del giallo dei campi di grano ai quali Van Gogh dedicò i suoi ultimi sforzi: «Ho dipinto tre grandi tele: immense distese di grano sotto cieli tormentati e non ho avuto difficoltà a esprimere la mia tristezza e solitudine», come minaccia il nero volo dei corvi su quei campi. Entrambi cercarono il paradiso, ma non saltò fuori: il cielo restava chiuso e la felicità impossibile. Più costruiamo il paradiso con le nostre forze, più rimaniamo delusi. Quando nella storia l’uomo ha cercato di realizzare il paradiso in terra non ha prodotto che danni, dittature e stermini. La terra non chiede paradisi ma contadini la cui la libertà è l’aratro con cui aprire solchi o ferite nel «campo umano», che può diventare giardino o groviglio, raccolto o carestia, sta a noi scegliere. Come?

Affido la risposta a una donna che amo: Caterina da Siena. A 31 anni dettò un capolavoro intitolato Dialogo della divina provvidenza (1378), un colloquio intimo con Dio Padre, in un passo del quale, la futura patrona d’Italia, lamentandosi con Lui perché uomini e donne (a partire da lei) sono così imperfetti e fragili, riceve questa risposta: «Ho elargito molti doni e beni, sia spirituali che corporali – dico corporali con riferimento a ciò che è necessario per la vita dell’uomo – distribuendoli tutti in modo così differente che a nessuno toccassero tutti, affinché voi uomini aveste necessariamente occasione di reciproco aiuto. Certo, avrei potuto dotare ogni uomo di tutto ciò che gli fosse necessario, sia per l’anima sia per il corpo, ma Io volli che gli uni avessero bisogno degli altri, e si facessero miei ministri col distribuire agli altri quelle grazie e quei doni che hanno ricevuto da me. Lo voglia o meno, l’uomo non può fare a meno di fare atti d’amore. Ciò mostra come nella mia casa via siano molti compiti attraverso i quali Io non mi aspetto altro che amore».

Trovo queste righe illuminanti per chiunque, credenti o meno. La terra non è un paradiso perduto o mancato, ma una casa in costruzione, in cui ciascuno ha un compito, di cui doni e limiti personali sono le istruzioni. La divina provvidenza non è in un Dio tappabuchi a cui il mondo è venuto male, ma siamo noi stessi, ricchi di doni e di limiti: sono io che decido se mettere al servizio degli altri i doni che ho, o farmi i fatti miei; sono io che decido di chiedere aiuto a chi ha doni che io non ho, senza vergognarmi dei miei limiti. Le relazioni sono generative quando decidiamo di prenderci la responsabilità del destino delle cose e delle persone. A volte qualcuno riesce a dare solo il suo dolore e la sua fragilità, ma anche questi sono doni che invitano a offrire cura. La storia così diventa uno scenario fatto per dare e ricevere, ciascuno nel suo ambito e come può. Per esempio nel mio questo significa mettere al primo posto alunni e colleghi, e scoprire che cosa ciascuno ha di unico da dare e che cosa invece ha bisogno di ricevere. Se non lo si fa le relazioni diventano degenerative, che non vuol dire faticose o difficili (è normale nelle relazioni vere) ma prive di vita, cioè le energie e la gioia si spengono, e arrivano nell’ordine: solitudine, stanchezza, disperazione e distruzione. Tutto sta a noi, ancora una volta.

Negli stessi anni in cui Van Gogh e Gauguin trasformavano la loro sete di paradiso in arte, disperazione e fuga, Paul Cézanne ne faceva un accanito amore per la terra, nella sua Aix-an-Provence. Egli rivoluzionò l’arte dipingendo, fino alla morte che lo colse en plain air, lo stesso soggetto, le amate montagne di Sainte Victoire: «Potrei trascorrere dei mesi a lavorare sempre nel medesimo luogo, limitandomi a spostarmi di pochi centimetri a destra o a sinistra». Amo questa accettazione del presente, quest’attenzione tenace alla terra: «si possono trarre tesori da questo paesaggio, che non ha ancora trovato un interprete capace di rappresentare il profluvio di ricchezze che esso riserva». Il lavoro diventa scoperta di sé e del mondo: «ho bisogno di conoscere la geologia, come il massiccio di Sainte Victoire si radica, tutto ciò mi commuove e mi rende migliore». Cézanne posa in ogni tela la mano sulla terra, come se fosse il primo uomo. Questo «tatto» della prima volta, quello di chi apre con cura un regalo appena ricevuto, in tempi «senza tatto» o di «contatto» superficiale, è più che mai necessario: permette di liberare l’eden che c’è già, anche se timidamente nascosto, nel quotidiano, per custodirlo e coltivarlo con il proprio impegno. Cézanne dipingeva il suo amore per ogni mela e lo affidava, per sempre, alla mela dipinta. Anche noi, se «a capo» di ogni cosa che facciamo poniamo questo amore paziente per cose e persone, trasformeremo il lavoro in «capo-lavoro»: vita e gioia, in noi e attorno a noi.

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Questo voglio augurarvi nell’ultimo «letto» prima della pausa estiva: un nuovo amore per la terra – cose e persone – che ci è data, perché solo così porteremo a maturazione noi stessi, quelle cose e quelle persone. Questo è ciò che chiedo e ricevo da Dio ogni giorno: un amore che non si stanchi della ripetizione dei giorni e dei volti, ma si rinnovi continuamente come il gesto pieno di speranza del pittore di fronte al soggetto di sempre: un gesto ripetuto senza ripetitività. Questo è il letto che mi e vi auguro di rifare oggi, domani e sempre: un’arte di vivere «terra terra», che non significa rasoterra (senza cielo e senza profondità) come ci spingono a fare consumismo, relativismo e individualismo, ma abbracciando, come si può, tutta la terra che ci è data, cielo e sottosuolo compresi. Solo così il «terra terra» ordinario diventa un «Terra! Terra!»: grido gioioso di chi avvista e scopre il nuovo nel consueto. Ma questo può accadere se non rinunciamo a vivere le domande dipinte da Gauguin su sfondo oro: «da dove vengo, chi sono, dove vado?». Domande che, se suonassero vecchie e inutili, offro nella affilata «traduzione» di un ragazzo in una lettera al suo insegnante e mentore: «Ho sentito troppi insegnanti e genitori dire: questi ragazzi non desiderano più, non si appassionano a niente. La domanda che costoro dovrebbero farsi non è perché noi giovani d’oggi sembriamo non desiderare nulla, ma su cosa sperano loro. Perché poi i ragazzi quella speranza la assimilano come manna dal cielo, come l’aria, anche se sembra che se ne freghino. E i giovani baseranno su questa speranza che hanno respirato la loro identità adulta. Ma la speranza deve essere vera. Smettano, per carità, di tentare di affascinare o tormentare i loro studenti, apprendisti, figli. Vivano la loro speranza e la mostrino al mondo nelle cose che fanno. Siano disposti a vivere per essa. La loro speranza, se è vera, affascina da sola, ma deve essere vera, veramente vissuta». Ecco la sfida educativa: di che speranza viviamo noi?

PS. Ringrazio tutti per la grande passione con cui avete seguito questi «letti»: i vostri consigli, critiche, lettere mi hanno aiutato a riflettere e crescere. Chiedo scusa per gli errori, dovuti ai miei limiti personali e a un’opera viva come l’educazione che, essendo arte e non scienza, non offre manuali e soluzioni certe, ma iniziative personali a partire da principi chiari e situazioni irripetibili: nell’educazione la soluzione sono gli educatori. Un grazie di cuore a Federica, Carlo e mia madre, per il continuo confronto e conforto. Adesso è tempo di tacere, per scoprire nuove terre e quindi nuove parole. Ci rivediamo a settembre.

Corriere della Sera, 1 luglio 2019 – Link all’articolo e ai precedenti

5 risposte a “Letti da rifare 66. Un letto terra terra”

  1. Allebasi ha detto:

    Ho visto poco tempo fa il film relativo a Gauguin: “Tahiti. Il paradiso perduto”.
    Mi è piaciuto tantissimo con tutti quei colori, la natura che esprime vita.
    Gli esseri umani non hanno la capacità di edificare da soli il paradiso terrestre, ma come mai hanno la capacità di costruire l’inferno?
    Penso alla mafia descritta così minuziosamente nel suo libro : “Ciò che inferno non è”, al problema delle sette e, nello specifico, delle sette sataniche che ogni anno coinvolgono, purtroppo, tanti giovani in Italia, Germania, Francia, negli Stati Uniti etc.
    Perché noi non possiamo costruire il paradiso da soli, mentre se si tratta dell’inferno ci riusciamo così bene?
    Eppure l’uomo non è Dio né angelo né demone… Come si spiega questo sbilanciamento verso il male? Probabilmente siamo capaci di entrambe le cose: di edificare il paradiso oppure l’inferno. A nostra scelta. Una scelta continua e costante.
    La pulsione di vita e la pulsione di morte come le intenderebbe Freud.
    Se ci riunissimo tutti in una “social catena” contro l’inferno presente in questo mondo riusciremmo a scorgere “ciò che inferno non è”.
    Anzi, riusciremmo direttamente a scorgere il paradiso. Un paradiso di persone imperfette che si danno da fare per gli altri, chiedono scusa quando sbagliano,che pensino alla comunità, non solo alla società . La Gemeineshaft oltre la Gesellshaft.
    Dov’è allora il paradiso?
    In ogni piccola nostra azione fatta per amore è presente un preludio del paradiso. E quando ci accorgiamo che le nostre azioni producono qualcosa di contrario al paradiso? Fermarci a riparare e ripartire con rinnovata gioia, coraggio e disponibilità!
    Non siamo onnipotenti, ma neanche impotenti!
    Possiamo! Osiamo!!!
    Soprattutto : non perdiamoci d’animo! Tentiamo e ritentiamo, anche quando abbiamo paura di sbagliare!

  2. Allebasi ha detto:

    A proposito : grazie a lei, Alessandro. I temi che propone, oltre che essere interessanti, sono stimolanti per la nostra maturazione e formazione!

  3. Maria Rosaria ha detto:

    Carissimo Professore,
    chiunque provi a rispondere alle domande: Da dove veniamo? Chi siamo? Dove andiamo? si trova di fronte a qualcosa che sfugge sempre. Anche quando ci sembra di avere un’intuizione buona, più cerchiamo di trattenerla nel tentativo di darle interezza più essa si allontana da noi come il vento. L’uomo è imperfetto per natura, a ciascuno è dato molto ma non tutto e anche se ciascuno ha la capacità di pensare nessuna mente ha la possibilità di arrivare a conoscere la potenza di Dio e la complessità del suo disegno o di dimostrare che un Creatore non esiste. Ogni individuo comunque è in grado di distinguere ciò che è bene da ciò che è male. Quando si persegue il bene non si può che amare, amando soprattutto la differenza radicale e irriducibile dell’altro che lo rende unico, apprezzando di lui la singolarità e lasciandogli la libertà di essere se stesso. Il benessere del singolo dipende molto dagli incontri che fin dalla nascita ha avuto e se ha conosciuto l’amore, magari per un piccolo tratto della sua vita, gli è bastante per sapere di cosa si tratta e quanto sia determinante ce lo testimoniano i singoli prodotti di attività artistiche come il narrare, il poetare, il dirigere un film, il comporre ed eseguire musica, il pitturare che derivano da contemplazioni di sentimenti di un’uomo a cui è stato dato o sottratto amore.
    Sono bellissime le pagine che lei dedica a Tess e ad altre donne, quasi a ringraziarle per aver con il loro amore e la loro dedizione permesso ad uomini geniali di produrre cose uniche e poter essere grati alla vita per aver avuto al loro fianco persone straordinarie, pazienti e attente che li hanno sorretti e difesi dai demoni delle loro imperfezioni facendo assaporare loro l’offerta più bella ,quella di sentirsi amati.
    Chiedo scusa per le mie parole che non sono un commento a quanto scrive lei ma semplice voler essere presente tra coloro che la ringraziano per le sue straordinarie esplorazioni dell’animo umano che ci hanno fatto buona compagnia da un Lunedì all’altro.
    Grazie per l’invito ultimo a rivolgerci sempre alla terra , alle persone , alle cose con un amore che sia visibile e contagioso.

    Buona estate!
    M.R.D.M.

  4. Maria ha detto:

    Io adoro dipingere mi aiuta a cogliere quella infinita bellezza delle cose tutto ciò che mi circonda diventa ORO donato dal CIELO … Lo custodisco con AMORE sulle mie tele e… PER SEMPRE Grazie Alessandro !

  5. Francesca ha detto:

    Grazie di avermi portato a riflettere sulla profondità espressiva di artisti unici quali Van Gogh, Gauguin e Cézanne, sulla loro forza creativa e generativa dei loro quadri che sprigionano vita ed emozioni autentiche di gioia e dolore. L’inquietudine di Van Gogh, la sua ricerca spasmodica di cogliere e riprodurre la perfezione nella natura cresce in lui quanto il suo isolamento ed abbandono, ed il suo indomito genio creativo commuove infinitamente. Così come la ricerca costante, ripetuta ma mai uguale di un senso di appartenenza autentica alla terra di Cèzanne, terra che ri-genera in ogni nuovo dipinto per ritrovare dunque anche se stesso, perché è così che noi tutti dovremmo imparare a vivere, partendo da ciò che abbiamo in natura e nelle persone, generando nuova vita nelle nostre relazioni senza mai dare nulla o nessuno per scontato. Avere occhi pieni di stupore per ciò o per chi già conosciamo ma che merita comunque di essere riscoperto ed amato ancora.

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