7 gennaio 2020

Ultimo banco 18. L’epifania di Artemisia

Risultati immagini per artemisia gentileschi adorazione dei magi

«Il nome di donna fa stare in dubbio finché non si è vista l’opera ma farò vedere a Vostra Signoria che cosa sa fare una donna». Era il 7 agosto 1649 quando Artemisia Gentileschi scriveva così al suo committente, don Antonio Ruffo. E in effetti la sua maestria era tale da esser nota già in vita come la Pitturessa, per antonomasia. Sono sulle sue tracce da tempo, ma quest’anno mi ha raggiunto lei a Milano, con un quadro che il Museo Diocesano ospita fino al 26 gennaio per il sempre sorprendente appuntamento — chiamato «Un capolavoro per Milano» — che, a differenza delle solite abbuffate museali, prevede l’esposizione di una sola opera per il tempo natalizio: non è lo spettatore che la guarda e la consuma, ma l’opera che guarda lui e lo cambia. Dopo Antonello da Messina, Lorenzo Lotto, Albrecht Dürer, Caravaggio… quest’anno tocca all’Adorazione dei Magi (1636-7) di Artemisia, tela in prestito dalla cattedrale di Pozzuoli, che mi sembra la miglior guida per la festa di oggi, l’Epifania, parola che significa «manifestazione»: il Dio invisibile si mostra a tutti gli uomini che lo cercano, come ai sapienti venuti dalla Persia a Betlemme, che chiamiamo Magi.

Artemisia ebbe una vita tortuosa, e la sua arte fu spesso la riscrittura del suo dolore per trarne qualcosa di diverso dalla distruzione. Perde la madre a 12 anni e il padre Orazio, noto pittore romano, vuole che la primogenita si occupi della casa e dei fratelli; Artemisia però, a differenza dei maschi sui quali Orazio ripone le sue aspettative, ha talento artistico e determinazione. Nel maggio del 1611, neanche diciottenne, è già nota, ma il suo maestro di prospettiva, Agostino Tassi, detto lo Smargiasso, la seduce e la violenta. Tassi viene condannato, ma la ragazza esce dal processo con l’infamia di «puttana bugiarda». Il padre combina un matrimonio riparatore con un altro pittore e, nel 1612, Artemisia lascia Roma per Firenze, dove, recuperato il cognome del nonno (Lomi) che il padre aveva sostituito con un più aulico Gentileschi, può ricominciare da zero. Lì, talento e gran lavoro le aprono le porte – è la prima donna – dell’Accademia del Disegno fondata da Cosimo de’ Medici nel 1563. Dipinge soggetti femminili straordinari, tra cui spicca, in diverse tele, Giuditta decapita Oloferne, in cui la coraggiosa donna del racconto biblico è ritratta caravaggescamente nell’istante in cui taglia la gola all’uomo che vuole violentarla. In quella donna Artemisia nasconde e mostra se stessa: «A Firenze le chiederanno di dipingere eroine della storia antica e della storia sacra, ma sotto la sua mano non saranno eroine, saranno donne, saranno lei stessa», scrive Elisabetta Rasy nel bel libro dedicato a sei pittrici che sfidarono il loro tempo, Le disobbedienti, riconoscendo ad Artemisia «un nuovo sguardo sul corpo delle donne: le sue donne hanno l’anima in corpo». Anzi di più: il loro corpo si modella, non sempre drammaticamente, attorno alla loro anima.

L’ho constatato anche nell’Adorazione dei Magi, in cui Maria ha della pittrice i capelli ramati e la gioia conquistata dopo tanto affanno. Non c’è la rabbia delle sue eroine, ma la pace di una donna che può finalmente permettersi di essere se stessa. Come mi spiega la direttrice del Museo, Nadia Righi, dalla violenza in poi Artemisia non dipinse più Madonne: forse non voleva ritrarre una donna con cui non riusciva a identificarsi. A 43 anni, 25 anni dopo lo stupro, ci riesce creando un quadro in cui il dolore è diventato bellezza, la rabbia gioia, le ferite perdono, la sofferenza pace. Si identifica con Maria che realizza se stessa condividendo con altri il dono che ha ricevuto: con le mani velate porge Dio al primo dei re magi che, esterrefatto, si butta in ginocchio abbandonando ogni contegno regale. La bocca e gli occhi spalancati danno corpo a un’anima invasa dallo stupore: il Dio, che neanche la madre osa toccare direttamente, lui lo ha tra le mani. È finito il tempo della distanza e della paura di Dio ed è iniziato quello della vicinanza e dell’amicizia con Lui. Artemisia riesce a farci vivere l’epifania perché vive la sua, mostrando che la bellezza di ciascuno di noi si realizza nella piena maturazione della nostra vocazione: questo è il divino nell’umano. L’Epifania ci ricorda che una vita si può dire bella solo se migliora il mondo con la propria presenza. Non è vero che l’Epifania tutte le feste porta via: la festa è appena cominciata. E sta nel far fiorire, tutti i giorni, i nostri doni mettendoli al servizio degli altri, anche se questo richiede studio, lotta, impegno, generosità e tanti fallimenti, come fu per Artemisia, che nella stessa lettera citata in apertura scriveva: «lei vedrà nei fatti questo talento che mi ha dato Iddio». Era sicura di sé perché sapeva di avere una missione da compiere, benché avesse tutti gli alibi per rinunciare. E noi?

Corriere della Sera, 6 gennaio 2020 – Link all’articolo e ai precedenti

7 risposte a “Ultimo banco 18. L’epifania di Artemisia”

  1. Davide Monaci ha detto:

    Grazie Professore,
    come sempre ci porta dentro la bellezza della vita.
    Grazie!

  2. Pepita Jimenez ha detto:

    Proprio qualche giorno fa ho trovato, su un profilo Instagram dedicato al mio cartone preferito d’infanzia, queste parole : “Only old men think men are better than women these days”.
    Oggi, da più parti si inneggia alle potenzialità delle donne. Potenzialità non sempre rispettate, purtroppo.
    Mi piace molto questa artista che ha cercato di abbattere tutte le barriere, tutti i “soffitti di cristallo” in cui oggi spesso vengono intrappolate le donne. Un esempio per tutti. E un altro esempio di come l’arte possa contribuire alla rinascita di una persona dopo un dolore, una perdita, una malattia.
    È riuscita a superare il suo trauma legato allo stupro, riscrivendo la sua storia come donna e come artista.
    Una storia di donna che, mi ricorda le donne di “Ogni storia è una storia d’amore”.
    È molto bella anche la parola “vocazione”.
    L’abbiamo dimenticata, la nostra società l’ha dimenticata.
    Adesso termino con una citazione presa a prestito da alcuni scritti di Padre David Maria Turoldo :
    “Naufraghi sempre in questo infinito, eppure sempre a tentare, a chiedere, dietro la stella che appare e dispare, lungo un cammino che è sempre imprevisto. Magi, voi siete i santi più nostri, i pellegrini del cielo, gli eletti, l’anima eterna dell’uomo che cerca, cui solo Iddio è luce e mistero “.

  3. Pepita Jimenez ha detto:

    Voglio approfondire la conoscenza di questa meravigliosa artista. Una donna forte e coraggiosa che ha fatto della sua vocazione la sua vita e della sua vita la sua vocazione.
    Un’altra storia di rinascita dal dolore e dalle sofferenze.
    Un esempio per tutti per non lasciarsi scoraggiare mai!

  4. Elena Bulzi ha detto:

    Grazie della bella lettura di Artemisia che ci regala!
    Sono stata anch’io a vedere il quadro e su un pannello didascalico ho letto che l’opera presenta una “semplificazione espositiva e qualche ingenuità, come è evidente dagli incerti rapporti proporzionali tra la Vergine, seduta su un gradino di roccia rialzato, e l’imponente monumentalità dei Magi…”
    Sarà, ma non mi convince! Certo che la sproporzione c’è, ma non credo che Artemisia fosse tanto “ingenua” da essersi sbagliata nella realizzazione di questo quadro. Forse le ha proprio volute queste sproporzioni, quasi a tradurre nel suo linguaggio pittorico di donna attenta un versetto del Magnificat: “Ha rovesciato i potenti dai troni”.
    In primissimo piano c’è lo sguardo sbalordito del re mago più anziano, che pare non credere a ciò che vede: tanto andare, faticato e snervante, tutto quel logorarsi piedi, mente e cuore, per piegare le ginocchia di fronte ad una giovane madre, vestita in modo dignitoso ma semplicissimo, eppure quasi sdegnosa, tanto che neppure alza gli occhi di fronte a tanto sfarzo di doni e di vesti! E di fronte al suo Bambino, che pare giocare con il sapiente re ed usa la sua regale mano come base per i suoi piedi.
    Non so, ma più lo osservo e meno scorgo “ingenuità” compositiva.
    Vedo invece la regalità di Maria e di suo Figlio, resa senza l’utilizzo di corone o di proporzioni accresciute, come accade spesso, ma solo attraverso sguardi e gesti che non denotano alcuna concessione di fronte alla ricercatezza di stoffe e doni di lusso. Non è custodita lì la vera regalità.
    “Ha rovesciato i potenti dai troni ed ha innalzato gli umili” (Lc 1,52)
    Chssà cosa avrà avuto in mente la grande Artemisia!

  5. Federica Salvan ha detto:

    La bellezza, la sua epifania desta stupore nella educazione e si allea al bene: kalonkaiagathon.

    Coraggio, prodezza nel sentire infinito che conduce.
    La Fliosofia ha un linguaggio che porta a sofhia sempre con dolcezza.

    Federica

  6. Maria Rosaria ha detto:

    Trovo assolutamente vero, a proposito dell’opera d’arte che “non è lo spettatore che la guarda e la consuma, ma l’opera che guarda lui e lo cambia”.
    Questo vale prima di tutto per la Natura, quello straordinario splendore che fa trasecolare l’osservatore attento. Tuttavia anche tutte le attività umane, da quelle intellettuali a quelle artigianali, se vengono percepite come vocazioni e sono svolte con passione ed entusiasmo, diventano richiami motivanti per chi le esercita e per chi ne fruisce.
    La vocazione è il progetto che Dio ha pensato per ognuno di noi dotandoci di particolari qualità, così che essa possa allo stesso tempo essere scopo di vita ma anche un “valore” grande da offrire agli altri.
    L’audacia di Artemisia unita alla capacità di usare i pennelli le hanno permesso di affrontare quel trauma, che le creava una sofferenza profonda e persistente, riuscendo a disattivare così le sensazioni infauste che le ingombravano la mente e farla sentire, dopo molto lavoro, libera e grata a Dio e anche modello esemplare per molti.
    Per le donne, fino a poco più di un secolo fa, non era facile avvicinarsi alla cultura, quelle che lo facevano erano considerate per lo più ribelli e irriverenti, ma grazie ad alcune coraggiose pioniere la situazione è oggi diversa in molte ma non in tutte le aree del mondo. Non basta eliminare ostacoli, bisogna che c’ impegniamo costantemente per progredire ampliando le nostre conoscenze, nutrendo la gioia, la compassione, la tolleranza, la stima di noi stesse. E’ necessario sviluppare tutto ciò che porta fiducia per lottare contro le paure, usare le nostre risorse per superare ferite e inibizioni, trovare un modo per non lasciarsi incupire dalla sofferenza e cercare di eliminare tutto quello che dentro di noi è ostacolo alla gioia di vivere.
    Il lavoro più difficile da fare è l’adattarsi ai cambiamenti e cercare un equilibrio che deve essere nuovo ogni giorno, lasciando però sul piatto della bilancia i nostri valori etici che sono luce per la via giusta da seguire.

    Un caro saluto.

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