9 luglio 2020

Ultimo banco 43. Furore

steinbeck

«Quando gli uomini erano in gruppo, la paura spariva dai loro volti e l’ira prendeva il suo posto. E le donne sospiravano di sollievo, perché capivano che andava tutto bene: non ci sarebbe mai stato nessun crollo finché la paura fosse riuscita a trasformarsi in furore». È così che, quasi alla fine di Furore, uno dei libri da me più amati, John Steinbeck, Nobel nel 1962, riassume la storia della famiglia Joad. Espropriata ingiustamente della sua terra, deve partire, insieme ad altre, per un drammatico viaggio in cerca di lavoro e sopravvivenza. Nel titolo originale «furore» è «wrath» (ira), The Grapes of Wrath (I grappoli d’ira) sono i frutti di quel sentimento che non ci fa accettare le ingiustizie e spinge a trasformare la paura in azione, purché ci si aiuti a vicenda. Forse perché ciò che ci paralizza nella vita non sono tanto le difficoltà, ma l’affrontarle da soli, come in questi giorni.

Le conseguenze sociali ed economiche del confinamento si sono solo in parte manifestate nella loro drammaticità, ma non dobbiamo perdere di vista ciò che hanno già messo a nudo: un Paese la cui energia creativa, unica per storia e vocazione, è paralizzata. Le cause sono varie: politica schiacciata sul consenso, burocrazia e pressione fiscale asfissianti, situazioni patologiche di scuola e pubblica amministrazione, privatizzazioni mal gestite, delinquenza organizzata a livelli di Stato nello Stato, uso politico della magistratura. La crisi di un sistema è a misura di chi lo anima, come ben dimostra Luca Ricolfi in La società signorile di massa: la ricchezza, prodotta negli ultimi decenni nel Paese, è stata divorata dall’egoismo e non si è trasformata in nuovo lavoro e crescita. La stagnazione economica rischia ora di diventare recessione: il conto lo pagano già da tempo le nuove generazioni che, infatti, consumano il patrimonio familiare (quando c’è), fuggono (spesso i talenti migliori) o non hanno speranza nel futuro, come mostra la fatale crisi demografica avallata da politiche che della famiglia hanno voluto ignorare il fondamentale ruolo sociale ed economico per la società. I cittadini vengono tenuti a bada con promesse, mance e bonus, che allargano il debito e incoraggiano paralisi e parassitismo. «Ogni tempo ha il suo fascismo: se ne notano i segni premonitori dovunque la concentrazione di potere nega al cittadino la possibilità e la capacità di esprimere ed attuare la sua volontà. Vi si arriva in molti modi, non necessariamente col terrore dell’intimidazione poliziesca, ma anche negando o distorcendo l’informazione, inquinando la giustizia, paralizzando la scuola, diffondendo in molti modi sottili la nostalgia per un mondo in cui regnava sovrano l’ordine e in cui la sicurezza dei pochi privilegiati riposava sul lavoro forzato e sul silenzio forzato dei molti», sono parole di Primo Levi sul Corriere nel 1974. Lascio a voi il triste ma necessario esercizio di identificare, oggi, i segni di questo fascismo «morbido» e dissimulato, che non sta in ridicoli rigurgiti nostalgici ma nel potere economico, politico e culturale concentrato nelle mani di pochi e usato a danno di molti (suggerisco Il capitalismo della sorveglianza di Shoshana Zuboff e Cigni selvatici di Jung Chang per capire come si muovono America e Cina). Ma era già tutto previsto in libri che negli ultimi anni ritengo necessario far leggere ai miei ragazzi durante le superiori — Il Nuovo Mondo di Aldous Huxley, Fahrenheit 451 di Ray Bradbury, Arancia Meccanica di Anthony Burgess e 1984 di George Orwell — per far loro capire che consumismo, ignoranza, nichilismo, individualismo e controllo sociale sono la miscela ideale per la paralisi di anime e corpi. E mi preoccupa che tanti di loro, sedati da questo cocktail letale, non si ribellino al graduale furto del loro futuro, come le famose rane, di cui parla Noam Chomsky, bollite a fuoco così lento da non accorgersene, se non quando non hanno più le forze per reagire. Oggi servono barricate di pensiero e gruppi di resistenza perché, come in Furore, viviamo tempi di subdola espropriazione di dignità e libertà. Il libro di Steinbeck mostra però che si può anche essere sconfitti dall’ingordigia e violenza degli uomini, ma sottomessi mai, perché mai è sottomesso chi è unito ad altri e dà la vita perché anche solo un’altra vita sia salvata, come nella memorabile scena finale del libro. Leggetelo.

È ora che io mi congedi, anche se solo temporaneamente, da questa rubrica legata alle tappe del calendario scolastico. Vi ringrazio per averla seguita con passione, critiche e spunti. Spero abbia reso più belli i vostri lunedì dell’anima e del corpo. Il silenzio di cui periodicamente abbiamo tutti bisogno mi aiuterà a raccogliere le forze per sfide di fronte alle quali voglio farmi trovare pronto. Ci rivediamo a settembre: buon lavoro e buon riposo (anche se so che per molti sarà difficile) a tutti.

Corriere della Sera, 6 luglio 2020 – Link all’articolo e ai precedenti

3 risposte a “Ultimo banco 43. Furore”

  1. Anna Bighignoli ha detto:

    Grazie per la compagnia sempre attesa e mai disattesa del lunedi.
    Grazie per avermi aperto sempre nuovi orizzonti, brillanti, speciali.
    Grazie per la bellezza delle parole, sempre univoche e precise.
    Grazie perché in ogni riga da Lei scritta, ne ho sempre trovate mille altre.
    La scrittura e la lettura sono “eventi” preziosi, teniamoli cari.
    Buona estate Professore!

  2. ISY ha detto:

    Fare ed essere resistenza non significa fare, a propria volta, del male ad un’altra persona. Se facciamo questo, rischiamo di procurare davvero morte e sofferenza, anche se magari non è nostra intenzione. Essere e fare resistenza significa non farsi schiacciare da chi supponiamo ci controlli. Non controllare a propria volta o schiacciare gli altri.
    Il peggior inganno per un essere umano è quello di possedere informazioni sbagliate (nella propria mente) su una persona o su più persone.
    La resistenza non è un valore : dipende dai modi attuati per portarla avanti perché, anch’essa, può trasformarsi in dittatura.
    Anche se è un particolare che viene taciuto, pure i partigiani nella storia hanno fatto molti danni e portato morte. La sfida vera non è quella di mettere tutti contro uno o contro pochi (cosa che mi ricorda molto la dinamica del bullismo e del mobbing), ma di riuscire a cambiare la nostra percezione e quella dell’altro (se sbagliata). Rischiamo di diventare dei dittatori anche noi se facciamo propaganda contro una persona e la controlliamo. Rischiamo di ottenere l’effetto contrario e solo acredine.
    Rischiamo di non considerare che dietro comportamenti, azioni, partiti, professioni o ruoli ci sono le persone.
    Per questo mi viene in mente una frase del libro che sto leggendo in questo momento e che parla dell’orrore del fascismo : “Leila era una partigiana che combatteva i fascisti, ma quando passava davanti alla tomba di un fascista, un fiore di campo glielo lasciava, perché quello nella tomba, prima ancora di essere un fascista era stato il figlio di una donna. Leila mi ha insegnato che il fascismo è una delle cose più orribili al mondo, come tutte le dittature e tutti i dittatori, ma di fronte alla morte sono migliori il silenzio e i fiori di campo, soprattutto se quel morto lì, da vivo, non avrebbe rispettato nessuno. Perché la differenza fra un fascista e un antifascista, alla fine, sta proprio qui “.
    Il libro in questione è” Siate ribelli, praticate la gentilezza ” di Saverio Tommasi.
    Utilizzare gli stessi strumenti che usa la dittatura non è resistenza, ma altra dittatura.
    Non c’è migliore arma che il dialogo e il chiarimento, per chi vuole attuarle.
    Solo il dialogo ci può salvare dalle dittature, reali e presunte, e dal male.
    E poi, non diceva qualcuno che “il male non si vince con il male, ma con il bene?”.
    Certo che è la cosa più difficile da fare, ma è l’unica chance per vincere davvero!

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