Ultimo banco 53. In presenza
In questi tempi «da remoto» (che è pur sempre, dal latino, il participio di rimuovere) il discrimine tra assenza e presenza è il corpo. Ma che cosa significa davvero «in presenza»? Con il corpo, a dimostrazione del fatto che siamo convinti che la nostra vita tutta intera è spirito e carne. Noi siamo «presenti» quando spirito e corpo sono uniti, e la vita cresce nella misura in cui cresce questa unione. Se invece spirito e corpo si allontanano tra loro, la vita si avvilisce, viene «rimossa»: c’è una piccola morte tutte le volte che queste due dimensioni si separano, perché un corpo senza spirito è un cadavere e uno spirito senza corpo è un fantasma. Due sono le esperienze che uniscono di più corpo e spirito: il dolore e l’amore, perché sono appelli a un tu con nome e cognome ben precisi. Abbiamo il brutto vizio di assentarci dalla vita identificandoci solo con una parte di noi stessi: i beni, i ruoli, veri o presunti, che occupiamo in società, ai quali però non possiamo affidare la nostra totale «presenza», perché sono soggetti a fortuna, mode e tempo, mentre noi siamo sempre molto di più di ciò che abbiamo, facciamo, sembriamo. E quando invece sperimentiamo la gioia di questa presenza integrale? Quando guadagna terreno la vita che, per riuscirci, si serve del dolore per farci nascere e dell’amore, ricevuto e dato, per farci crescere. In entrambi i casi queste due forze fanno coincidere il nostro nome con la verità su noi stessi. Lo dice bene lo scrittore Raymond Carver in alcuni versi che ho trovato in un bel libro appena uscito (Creature di caldo sangue e nervi di Antonio Spadaro), sono versi nei quali descrive l’amore tra lui e la moglie: «Ma poi siamo / usciti sul balcone che dominava / il fiume e la città vecchia. / E siamo rimasti lì senza parlare. / Nudi. A osservare il cielo schiarirsi. / Così felici ed emozionati. Come se / fossimo stati messi lì / proprio in quel momento».
La parola «momento» viene da movimento con la perdita di una sillaba, e amore e dolore sono il movimento della vita che nasce e cresce, che si libera da ciò che la imprigiona. Amore e dolore ci denudano da standard, prestazioni, idee che torturano la vita che vuole invece solo compiersi e dar frutto. Non sono mai «esistito» tanto quanto nei «momenti» in cui ho sofferto, sono stato amato e ho amato di più. Chi non è amato, chi non ama, chi non soffre si sottrae ai mo(vi)menti della vita, non (ri)nasce e non cresce, perché la vita (ri)nasce e cresce nel rischio: si può restare in vita per abitudine ma si diventa vivi solo per inquietudine. Quando la gioia si spegne la soluzione non è fuori di noi ma dove la vita ha origine: nel nodo di amore e dolore che chiamiamo desiderio, perché è al tempo stesso mancanza e slancio, non una mancanza che blocca ma che invita all’esplorazione, al rischio. Il desiderio è l’impazienza del futuro e la sua sofferta e profetica anticipazione. Rischiare viene da un verbo che indicava il tagliare, un taglio del cordone ombelicale per avventurarsi nella vita là fuori. Altrimenti finiremo come George Gray, uno dei personaggi seppelliti nello splendido cimitero letterario immaginato da Edgar Lee Master a Spoon River, morti con il privilegio di poter guardare la loro tomba: «Ho osservato tante volte/ la lapide che mi hanno scolpito:/ una nave in porto con la vela ammainata./ In realtà non rappresenta il mio approdo/ ma la mia vita./ Poiché l’amore mi fu offerto ma fuggii le sue lusinghe;/ il dolore bussò alla mia porta, ma ebbi paura;/ l’ambizione mi chiamò, ma temetti i rischi./ Eppure bramavo sempre di dare un senso alla vita./ E ora so che bisogna alzare le vele/ e farsi portare dai venti del destino/ dovunque spingano la nave./ Dare un senso alla vita può sfociare in follia,/ ma una vita senza senso è la tortura/ dell’inquietudine e del vano desiderio –/ è una nave che desidera il mare ardentemente ma ha troppa paura».
Questo nostro essere «da remoto» indebolisce o addirittura rimuove il desiderio, e l’educazione è fatta per «promuovere» non certo per «rimuovere» le vite. Per questo non possiamo limitarci ad aspettare che la notte passi, soprattutto per ragazzi che nel desiderio hanno il loro mo(vi)mento più vitale di crescita. Come fare a coltivarlo adesso? Ogni genitore e insegnante dovrà ingegnarsi. Ho saputo che nei giorni precedenti al nuovo confinamento, a Milano, alcuni studenti si sono ritrovati nella piazza antistante la scuola e, seduti per terra mantenendo distanze e protezioni, con i loro dispositivi hanno seguito, in DAD, le lezioni dei docenti chiusi nelle aule vuote di quella stessa scuola. Un gesto simbolico per ricordare a noi adulti che, anche a scuole serrate, è l’unione di corpo e spirito che fa la «presenza». E noi non vogliamo tanti George Gray, ma una schiera di ragazzi e ragazze capaci di stare nel mo(vi)mento della vita, in spirito e corpo, potendo rispondere: Presente!
Corriere della Sera, 9 novembre 2020 – Link all’articolo e ai precedenti
Caro Alessandro,
innanzitutto grazie dei tuoi articoli, che in famiglia leggiamo sempre tutti con molto piacere. Spunti di riflessione e, in qualche modo, luce/ispirazione in tempi bui.
Da insegnante, ma anche da persona, leggendo il tuo ultimo articolo, mi chiedo: perche’ per trovare il senso della vita bisogna scegliere per forza una delle tre componenti (amore, dolore, ambizione)? e’ giusto? perche’ l’ambizione cieca e’ sbagliata, siamo d’accordo, ma l’assenza di ambizione non lo e’ ugualmente? il dolore insegna, ma ha senso che si protragga all’infinito (i.e. punizione perenne)? l’amore salva, a volte a spese di tutto il resto (se e’ “vero amore”).
Non avrebbe piu’ senso trovare un equilibrio tra queste tre dimensioni? Magari qualcosa che, mentre soddisfa un’ambizione (qualcosa insomma, di personale), consente anche di fare qualcosa di utile/positivo (o quantomeno di non deleterio) per il mondo e che porti anche la sua quantita’ (finita) di dolore per aiutare a ‘mantenere la rotta’.
Forse c’e’ qualcosa che mi sfugge…
Grazie
Cara Marina, tutti i tuoi rilievi sono pertinenti, ma basati su una interpretazione separata di amore e dolore, che io congiungo nel desiderio, come luogo in cui appare la verità della persona tra bisogno e dono. L’ambizione non è altro che questa spinta a creare, non l’ambizione come la intendiamo oggi (carriera). Il desiderio spinge l’uomo al compimento, amore e dolore lo guariscono dalla sua pretesa di essere lui solo al mondo contro gli altri e, gradualmente, lo aprono alla vera pienezza che è la cura di sé e del mondo. Lungi da me cercare il dolore come necessità, è semplice accettazione della fragilità della condizione umana.
Consapevolezza, tutto passa attraverso la consapevolezza. Non si fa esperienza di amore o di dolore a propria insaputa, forse il giusto equilibrio è l’ intramontabile giusta misura del tutto, per ogni essere umano la giusta miscela che porta crescita, crescita dello spirito.
Sia ben chiaro che, per nostra fortuna, la perfezione non esiste!
Le sue riflessioni sono interessanti.
La scuola in presenza (e la presenza in generale) è un’altra cosa rispetto alla didattica a distanza.
Credo, però, che in questo tempo la nostra sfida sia proprio quella di confrontarci con la scuola ai tempi del Covid.
Sicuramente, la presenza è data dall’essere o esser-ci di anima, spirito, corpo, ma credo anche che se noi mettiamo “anima e corpo” nel lavoro che facciamo, possiamo essere presenti… anche se a distanza, perché possiamo usare tanti canali per raggiungere i ragazzi.
Possiamo parlare dei benefici della scuola in presenza ed è giusto farlo, ma la sfida in questo momento è proprio quella di essere vicini ai ragazzi, anche se lontani.
Dobbiamo combattere per questo, adesso.
Poi verrà il momento di fare ritorno a scuola, alla nostra scuola, quella che conosciamo noi.
Ma adesso la nostra sfida è quella di essere in presenza anche se a distanza.
Sicuramente, è giusto riflettere e prevenire le derive dell’essere sempre in “remoto”.
Questa modalità può provocare danni solo quando diventa preponderante rispetto alla vita reale,quando schiaccia la vita reale. Altrimenti, può essere un sussidio utile per portare avanti il nostro lavoro e la nostra vicinanza.
Nelle ultime settimane, un po’ affaccendato e distratto da altro, ho seguito meno i tuoi articoli e le tue riflessioni. Quindi, recupero ora, e – puntualmente – quando ciò avviene, la sensazione è quella di aver perso un appuntamento importante; ti ringrazio per le tue parole lenitive, che esplodono di vita e di speranza. Mi colpisce e mi commuove il tuo concetto di pienezza, unione di anima e corpo, unica vera desiderabile presenza, catalizzatrice di vita.
Sono ancora in attesa di una chiamata dalla scuola e il mio desiderio frustrato non fa che acuire la percezione di vivere “da remoto”… Attendo, perciò, una nomina con la speranza che sia la mia personale (ri)nascita in questo difficile momento. Grazie.
Salve da Federica.
La presenza, essere, stare presenti, connota, significa,quindi scende in profondità, la condizione vivente, piena di emozionalità della per sona, profonda risonanza che riluce, patisce, rifuggendo a- patia, astenia di patire , attuale.
Propendo per la presenza all’ appello che risveglia, fa brillare gli occhi, per rielaborare l’ ultimo libro di Don Carron.
La educazione alimenta, accende scintille di momenti, che si muovono,soni dinamici in una argomentazione di domande e risposte , avulse da aggressività e proclivi a mansuetudine.
Grazie in cui la gratitudine appartiene alla comunità, familiare alla comunicazione, munus, doni, cum, insieme nel tessuto umano.
Federica con e per il filein,desiderio di Infinito