23 febbraio 2021

Ultimo banco 68. Un vestito amaranto

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

«Ma esistono poeti vivi?».
Una mia alunna quindicenne dopo una lezione su un sonetto di Dante mi ha posto questa meravigliosa domanda, che certifica l’irrilevanza odierna della poesia nella vita quotidiana. Se nelle librerie non bastano gli scaffali per i gialli (siamo in un tempo che ha bisogno di sapere che esistono la giustizia, la verità e il colpevole, benché i detective siano sempre più scalcagnati), quelli dedicati alla poesia sono quasi spariti. Dei giallisti viventi sappiamo nomi e cognomi, dei poeti no. Per rispondere alla mia allieva porterò in classe gli ultimi due volumi di poesia che ho letto, pubblicati nella prestigiosa collana dello Specchio dedicata ai poeti del nostro tempo: Linea intera, linea spezzata di Milo De Angelis e La Terra di Caino di Alessandro Rivali (ho la fortuna di conoscere entrambi).

Le poesie non sono fiori essiccati tra le pagine di polverose antologie scolastiche ma «raccolte», logos («parola» in greco) originariamente indicava proprio il raccolto: i veri poeti raccolgono le parole più aderenti all’esperienza umana, perché lottano per non mentire a se stessi, come facciamo tutti per tirare avanti, e perché la vera poesia, dice Leopardi, ha l’effetto di un sorriso che «aggiunge un filo alla trama brevissima della vita»: le parole ben scelte, anche se in apparenza difficili, ci danno alla luce e ci danno luce. Basta leggerle con calma.

De Angelis apre la sua «raccolta» di esperienza umana su un tram: nel tunnel del grigio quotidiano appare una luce, proprio lì sente di essere un uomo, cioè l’unico essere vivente che non è fatto solo di bisogni primari da soddisfare, ma portatore inquieto di un desiderio a cui non sa dare un nome.

Comincia dando a se stesso del tu, darsi del tu vuol dire entrare in confidenza con se stessi, uscire dalla prigione narcisistica dell’io che vuole solo prendere e non comprendere: «Sali sul tram numero quattordici e sei destinato a scendere / in un tempo che hai misurato mille volte / ma non conosci veramente,/ osservi in alto lo scorrere dei fili e in basso l’asfalto bagnato,/ l’asfalto che riceve la pioggia e chiama dal profondo,/ ci raccoglie in un respiro che non è di questa terra, e tu allora/ guardi l’orologio, saluti il guidatore. Tutto è come sempre/ ma non è di questa terra e con il  palmo della mano/ pulisci il vetro dal vapore, scruti gli spettri che corrono/ sulle rotaie e quando sorridi a lei vestita di amaranto/ che scende in fretta i due scalini, fai con la mano un gesto/ che sembrava un saluto ma è un addio».

Qui il tempo non è più negli orologi ma nel fuoco di un desiderio che ci riscalda e ci anima: tutto sembra «come sempre» ma il vestito amaranto (nome che in greco indicava ciò che non appassisce e divenuto poi colore simbolo dello stupore) di una donna scardina il grigio dell’esistenza e apre una fessura nel muro di cose che si ripetono uguali ogni giorno: quel saluto è un «addio», cioè insieme — miracoli della poesia — un capolinea (addio) e una segnaletica (a Dio). Siamo fatti per qualcosa che è oltre noi stessi, che non raggiungiamo mai, ma che ci anima.

Nella sua raccolta Rivali dialoga invece con il Caino che ognuno di noi ha dentro: «Regredirai alla stagione dell’ansia,/ avrai in dono una potenza guasta/ e non saprai amare una donna». Nella Genesi Caino, dopo aver ucciso il fratello, abbandona l’Eden, luogo dell’armonia con Dio, gli uomini e le cose, per rifugiarsi nella Terra di Nod, nome simbolico che significa vagabondare. Abitare a Nod significa vivere nella terra dell’ansia, fatta di paure e sensi di colpa, di mali di cui a volte siamo responsabili e a volte no. Lì Caino costruisce una città e ha un figlio, e chiama Enoch sia l’una che l’altro, perché costruire e generare sono modi di combattere la paura della morte. Ma trova pace in questo? Il Caino di Rivali, ferito dalla nostalgia dell’Eden, viaggia nel tempo — è Gilgamesh in cerca dell’immortalità, è un medico che cura i malati di Hiroshima… — e cerca dappertutto ciò che può trasformare il sangue che ha sparso in vita: «Perché questa fiumana di porpora/ sbiadisca in un estuario azzurro/ e io riveda la fonte e i giardini». E anche qui è una donna, di nome Margherita, il segno di una possibile salvezza: «Donami occhi nuovi» le chiede Caino. Occhi che sappiano «guardare», cioè far la guardia, custodire cose e persone: «Sono forse il custode di mio fratello?» risponde Caino a Dio che gli chiede di Abele subito dopo il fratricidio. E noi «guardiamo»?

I poeti non ci nascondono l’intreccio di male e bene dell’esistenza, anzi ci immergono nelle contraddizioni della condizione umana, ma ne preservano il desiderio, color amaranto, che la anima. Ecco allora cosa risponderò alla mia alunna: «Cerca il piccolo scaffale con il cartellino Poesia, e scoprirai che non solo i poeti vivi esistono, ma che quelli veri ti dicono come essere viva anche tu».

Corriere della Sera, 22 febbraio 2021 – Link all’articolo e ai precedenti

Una replica a “Ultimo banco 68. Un vestito amaranto”

  1. Vittorio faraglia ha detto:

    mi piace molto questo “desiderio”di anelare ad una vita “metafisica”,a intravedere il senso delle cose piccole che viviamo!!continua a dirci cose…

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