16 febbraio 2021

Ultimo Banco 67. Le rughe e le righe

«Hanno sin qui la maggior parte dei filosofi creduto che la superficie della Luna fosse pulita e assolutissimamente sferica, e se qualcuno disse che ella fosse aspra e montuosa fu reputato parlare favolosamente. Ora io, il primo, questo stesso corpo lunare asserisco, non più per immaginazione, ma per sensata esperienza e necessaria dimostrazione, che è di superficie piena di innumerevoli cavità ed eminenze, tanto rilevate che di gran lunga superano le terrene montuosità». L’uomo che scoprì che la Luna era ancora più bella «con le rughe» nasceva oggi nel 1564: Galileo Galilei. A lui dobbiamo pagine così accurate sulla Luna che Italo Calvino le riteneva tra le migliori della nostra letteratura per rigore ed eros. Tutto merito del suo metodo («sensata esperienza e necessaria dimostrazione»): formulando leggi attraverso osservazioni ed esperimenti, deduzioni logiche e matematiche, rivoluzionò la scienza e mise in crisi le certezze basate sul mero principio di autorità. Galileo non si accontentava di convinzioni non verificate, ma andava a caccia dalla realtà «a proprio rischio e pericolo», non a caso esperimento ha la stessa radice di esperienza, una parola oggi da «riparare» in una cultura che spesso crede «esperienza» il semplice «assaggiare» tante cose.

Esperienza, dal latino ex-periri, è composto da ex- che indica l’uscir fuori (esplorare, estrarre…) e dal verbo che significava «provare», sia nel senso di «tentare» sia di «mettersi alla prova». L’esperienza porta a «uscire fuori» da se stessi e rischiare. Fare esperienza significa permettere a qualcosa o qualcuno di incontrarci e cambiarci: non è «provare» la realtà, ma «esserne provati». Oggi migliaia di immagini ci investono dandoci «impressioni» di esperienza, ma si tratta di «fantasmi», che certo provocano in noi emozioni le quali però, al contrario di quanto significa emozione (muoversi fuori), non ci fanno uscire da noi stessi, non ci mettono veramente in pericolo. Giocare e guardare una partita attiva le stesse zone cerebrali ma se, dopo averla guardata, dico: «abbiamo giocato male», sto parlando di impressioni passeggere non di muscoli doloranti e sudore.

L’esperienza è vita trasformata che si dà solo quando «rischiamo» la vita. Può infatti accadere di osservare precetti senza mai fare esperienza di Dio; andare in vacanza senza fare esperienza della natura; a una mostra senza fare esperienza della bellezza; avere relazioni senza fare esperienza dell’amore. «Che cosa è l’amore? Il bisogno di uscire da se stessi» scriveva Baudelaire, e lo si può dire di ogni vera esperienza: lavoro, passioni, vocazione, talenti, bellezza, sofferenze e… romanzi. Sì, avete letto bene. Me lo ha ricordato una scrittrice di cui amo soprattutto i racconti e di cui ho letto la prima recentissima biografia italiana: Flannery O’Connor: vita, opere, incontri di Fernanda Rossini. In una conferenza, l’autrice americana morta troppo giovane di lupus, dice: «Chi è senza speranza non solo non scrive romanzi ma, quel che più conta, non legge. Non ferma a lungo lo sguardo su nulla, perché gliene manca il coraggio. Il miglior modo per piombare nella disperazione è rifiutare ogni tipo di esperienza, e il romanzo è senz’altro un modo di fare esperienza». Chi non fa esperienza cade nella disperazione, oggi soprattutto i giovani, per un rapporto con la realtà sempre meno «mediato» da adulti che assolvano al compito di introdurre alla realtà (cioè educare) i nuovi, e sempre più «mediatico», cioè passivo, individualistico, consumistico. Ma l’esperto (spesso ridotto a «competente») non è semplicemente colui che «prova» (si può «provare» una cosa mille volte e non «saperne» nulla) ma colui che sceglie di «mettersi alla prova» (per chi e cosa vivi?), egli diventa parte dell’esperimento: prova e ne esce provato. L’inesperto non ferma lo sguardo e il cuore su nulla e nessuno, sfiora e passa oltre, come quando cambiamo canale o «scrolliamo» immagini sui social, all’infinito… Ma l’accumulo di immagini ed emozioni è un infinito che non soddisfa mai perché ci rende passivi, invece l’infinito di cui abbiamo bisogno ci fa visita e diventa parte della nostra vita, quando impegniamo la nostra libertà: chi «rischia» in un amore, in un lavoro, in un ideale, in un progetto, in un’amicizia, nelle righe di un romanzo (la lettura – è ormai dimostrato – è «attiva» più che mai: «questo libro mi ha cambiato»)… fa esperienza. Vive la vita, cioè se la gode.

Scienza e letteratura, nel fermare il nostro sguardo sulle cose, ce ne fanno «fare esperienza», come api che raccolgono il polline della realtà per farne miele. Per essere vivi non basta «provare» nel senso di «assaggiare», ma bisogna «mettersi alla prova» e «uscirne provati». Gli «esperti della vita», come Galileo e O’Connor, lo fanno «lasciandoci la pelle». E per questo sono ancora vivi.

Corriere della Sera, 15 febbraio 2021 – Link all’articolo e ai precedenti

2 risposte a “Ultimo Banco 67. Le rughe e le righe”

  1. ISY ha detto:

    Di Galilei ammiro la sua umiltà di fronte al Sant’Uffizio che lo spinse ad abiurare le sue tesi, i risultati delle sue ricerche, come anche la sua caparbietà nel ribadirle e nel credere proprio a quelle teorie ricusate da molti.
    L’uomo ha sempre coltivato il mito della “levigatezza”,cioè di qualcosa di pulito, puro senza macchie e senza rughe. È stato proprio questo mito a rifiutare di credere in una Luna macchiata, con rughe e con righe.
    Un antico retaggio che ci portiamo dietro ancora oggi. Mi viene in mente un tuo vecchio articolo di qualche tempo fa : “Effetto Wow”. Proiettiamo su di noi e non solo sul creato questo mito. Lo dimostra il fatto che cerchiamo di non invecchiare, come se la vecchiaia fosse una malattia mortale. La nostra società ha paura dell’invecchiamento e fa di tutto per proporre creme anti rughe, creme per una pelle levigata, creme rassodanti.
    Tutto ciò che ha macchie e rughe non ci piace, forse perché lo colleghiamo alla caducità dell’uomo e alla sua vulnerabilità conseguente al peccato originale.
    Bisogna insistere, come educatori, su questo aspetto. Far capire che vecchiaia non è sinonimo di malattia. Forse bisognerebbe far amare di più due fasi delicate della vita : adolescenza e vecchiaia, stando attenti ai miraggi di sirene omeriche (che la nostra società produce e riproduce) e facendo attenzione agli antichi retaggi culturali.
    Soprattutto, cercando di stare attenti alle immagini che propongono l’effetto levigatezza.

  2. ISY ha detto:

    Forse si tratta di “squarciare il velo di Maya” come disse il filosofo Schopenhauer per capire la vera verità che è sempre acquisizione graduale.

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