7 ottobre 2021

Ultimo banco 91. Algofobia

«Caro Alessandro, non ci conosciamo. Ho 19 anni e ho letto il suo ultimo libro: L’Appello. Mi ha aiutato a riflettere perché, come Omero Romeo, ho una malattia genetica che col tempo mi renderà cieco. Non si sa tra quanto, ma si sa che quasi sicuramente quello sarà il decorso. In Omero mi sono ritrovato: nella disperazione dell’essere cieco, nello stupido pensiero di essere un “peso” per gli altri, ma anche nella forza con cui va avanti, e per amore va oltre il suo limite, io perlomeno ci sto provando. Sono stato provocato rispetto al modo in cui sto “combattendo/reagendo” alla malattia, di fatto non ci stavo davanti e non facevo niente per preservare la vista. Volevo ringraziarla perché penso che se non fosse stato per lei non avrei cominciato un cammino per accogliere questa mia caratteristica, o almeno ci sarei stato molto più tempo».

Queste righe di (lo chiamerò) Andrea, ricevute qualche giorno fa, mi confermano quanto annotò lo scrittore C.S.Lewis nel suo libro più sofferto e bello, scaturito dal dolore per la morte della moglie: «Avevo pensato di poter descrivere uno stato, di fare una mappa del dolore. Invece ho scoperto che il dolore non è uno stato, ma un processo. Non gli serve una mappa ma una storia. Ogni giorno c’è qualche novità da registrare… come una lunga valle tortuosa dove qualsiasi curva può rivelare un paesaggio del tutto nuovo» (Diario di un dolore).

In una cultura che rimuove il senso del dolore, questa è una sfida educativamente urgente, perché la sofferenza più grande è la nostra resistenza alla sofferenza stessa, che da «estranea» può invece diventare prima «messaggera», poi «levatrice» e infine «noi stessi».

Se è vero che il pensiero nasce dallo stupore, è altrettanto vero che scaturisce anche dal dolore, uno smarrimento che, come la meraviglia, obbliga a fermarsi e rispondere al suo appello (Andrea dice «provocato» e «starci davanti»).

Eppure il dolore oggi sembra privo di senso, come mostra lo spaesamento interiore causato dalla pandemia. Per questo il filosofo Byung-Chul Han, in La società senza dolore, definisce la nostra cultura «algofobica»: terrorizzata dal dolore, fino alla paralisi. Se il concetto di vita si riduce all’ambito biologico e quindi medico, vita coincide con la salute e dolore con il male. Ma il dolore, da una piccola ferita a un lutto, è invece ciò che fa fare «esperienza della vita», impariamo a «sentirla» e «curarla»: quando soffriamo, infatti, scopriamo non solo di avere ma di essere un corpo. Medicina e tecnica promettono l’estinzione del dolore, ma ciò implica anche una certa estinzione dell’esperienza: nella mia vita sono stati i momenti di sofferenza, mia e altrui, a rivelarmi chi sono e in cosa credo.

Lungi da me il «dolorismo»: i dolori, al plurale, che si possono eliminare o lenire vanno eliminati o leniti, ma «il dolore», al singolare, è condizione dell’esser mortali e cammino per diventare se stessi. Trattare il dolore solo come difetto di una macchina biologica fa perdere la capacità di trasformarlo in risorsa.

Per poterla «sfruttare» (far sì che dia frutto) serve però ampliarne il significato oltre il biologico/medico (malattia) e restituirlo all’esistenza integrale (vita): questo gli dà senso, non lo rende scandaloso ma raccontabile, lo trasforma — dice Lewis — in storia. Ma può essere «accolto» come seme e «raccolto» come frutto solo se entra nel solco interiore, diventa carne nostra.

Il dolore è vita che vuole guarire, non sofferenza insensata: come la perla è la cicatrice della ferita inferta all’ostrica da un predatore, il dolore è una verità che chiede attenzione e cura. Quando un bambino si ferisce, il genitore accarezza la parte dolente e gli racconta una storia. Il dolore invoca legami e parole: non è solo «da contare», come abbiamo fatto nella pandemia con i dati dei contagi, bensì «da raccontare», cioè fonte di senso e azione. Il racconto di una cecità feconda ha permesso a un ragazzo di 19 anni, che probabilmente diverrà cieco, di accogliere una verità rimossa per paura e mancanza di prospettiva.

Quella scomoda verità forse potrà farsi carne, cioè vita, e lui non sentirsi un peso, ma avere (un) peso. Il dolore, suggerisce Han, è l’ostetrica del nuovo, fa ri-nascere, cioè fa nascere fino in fondo la nostra unicità: è levatrice di originalità. Non possiamo privare i ragazzi — non a caso definiti «la generazione fiocco di neve» per come li iper-proteggiamo da cadute, lutti e fragilità — né del dolore né del codice simbolico per aprirsi alla sofferenza come cammino verso il nuovo e verso l’altro, altrimenti li consegniamo alla paralisi della paura e dell’indifferenza.

Noi per primi siamo chiamati a dare un significato alla sofferenza: che senso ha e ha avuto per me? Chi mi fatto diventare? Che capacità di amare mi ha dato? Non voglio dare loro analgesici esistenziali, ma una verità fatta carne.

Corriere della Sera, 4 ottobre 2021 – Link all’articolo e ai precedenti

2 risposte a “Ultimo banco 91. Algofobia”

  1. Federica Salvan ha detto:

    Ritorno ai tuoi articoli proposti, gentile Prof, sono Federica Salvan abitante di Rovigo, con le radici in Bassano del Grappa dove mi rifugio

    Sono, un crescendo, una mescidanza di parole piene, sature, pregnanti e polisemiche; sono una esortazione a custodire la parola nella sacralità e non frivolezza.

    In questo ultimo scritto, riconosco me stessa, rinvengo la mia vita, contrassegnata, lo avevo forse, già scritto in altre circostanze, dal dolore, dalla sofferenza fisica, per la malattia neurologica, interiore per le situazioni varie, mutevoli della mia interiorità per affrontarla.

    Ho tardato a nominarla in questi venti anni circa, volendo mostre la forza di chi è superiore, ma poi, la ho accolta, ospitata.
    La ho sentito a livello percettivo, per le lesioni della terapia ventennale, ora sospesa per esse, ed in attesa di un’ altra terapia; la sento ancora, nelle percezioni di tali lesioni che irritano, ostacolano.

    È parte di me, la affezione, così , la chiamo perché tocca,si attacca e aderisce dal lat. afficere.

    Ha un nome però, diminuisce il timore, riesce a rafforzare.
    Fobos per algos, si dissipa o assume altri forme più tenui come stizza, irritazione.

    Ho risposto all’ appello, la vista interiore che sa, o -meros è desta e cammina per educarsi.
    Il limite, attinte la finitudine umana, è più acuto in me, ma spinge a ad assumere una identità diversa di persona coraggiosa.

    Sono io e questa malattia, mai alibi, sotterfugio, finta compassione.
    Le realtà, hic te nunc, la rende, mio destino.
    Il dolore non sminuisce, non atterra, ma innalza, genera.
    Esso va narrato, con discrezione, è un cammino variabile, è, soprattutto, esperienza.
    Ho tratto,traggo beneficio seguendo l’ appello che appella;trovo la cura come appoggio e rivelo che, malata, Federica, non è sminuita.
    Impedimenti, anche in frasi, incontro,con esclusioni, stigmatizzazioni ma muovo a non desistere nella lotta.
    Grazie perché in tutto governa un senso, non solo sensoriale, ma alto, Infinito.
    Nella malattia esiste per sfidare e pungolare.
    Cari saluti da Federica

  2. Ylenia ha detto:

    Caro,nessuno mai è riuscito a narrare il dolore,a guardarlo con tenerezza e amore come risorsa .Ciò che appare evidente è sempre una umanità in cammino e cammina cammina…..
    Baci

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